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A rivista anarchica n42 Novembre 1975 Mazurka blu. Il tragico attentato al teatro Diana. di P. F.

23 ottobre 2011

A colloquio con lo studioso Vincenzo Mantovani, che da tre anni si sta occupando della ricostruzione storica dell’attentato commesso a Milano nel 1921 al teatro Diana – Lo sciopero della fame di Malatesta alla base del tragico gesto di protesta – La complessa realtà del ristretto nucleo di terroristi anarchici allora operanti a Milano – Nelle nobili parole di Malatesta la netta condanna dell’attentato ma non dei suoi autori

Nel corso della trasmissione televisiva dedicata all’anarchia, andata in onda mercoledì I ottobre, ampio spazio è stato dedicato alla tragica vicenda dell’attentato al Teatro Diana. E, puntualmente, la versione che ne è stata fornita non ha sortito altro effetto che quello di rispolverare la tradizionale oleografia dell’anarchico bombarolo e terrorista.

Indubbiamente l’intera vicenda dell’attentato al Diana non è ancora stata chiarita, e probabilmente non lo potrà mai essere in ogni suo aspetto. Ciò nonostante è necessario cercare di comprendere la realtà sociale dell’epoca e di acquisire quanti più dati di fatto possibile per far luce su quella tragica vicenda. Tanto più che ancora ai giorni nostri – cioè oltre mezzo secolo dopo – l’attentato al Diana viene “scagliato” contro gli anarchici ogni qual volta il Potere vuole riprendere la persecuzione e la campagna di diffamazione contro l’anarchismo.

A parte un volume autobiografico steso da uno dei tre anarchici autori dell’attentato (G. Mariani, Memorie di un ex-terrorista, Torino 1953), poco o niente è stato finora scritto in campo anarchico per approfondire la vicenda del Diana. Non sarà quindi inutile riprendere un attimo seriamente il discorso: ecco la ragione dell’articolo che segue, frutto di una lunga conversazione con un giovane studioso, Vincenzo Mantovani. Partito tre anni fa con l’intenzione di scrivere un libro sull’attentato al Diana, mantovani ha lavorato in tutto questo periodo ad una attenta ricostruzione non solo del fatto in sé, ma anche – e soprattutto – dell’ambiente sociale e politico nel quale l’attentato si produsse. La sua ricerca ha quindi progressivamente allargato il suo ambito giungendo ad abbracciare la storia del movimento anarchico a Milano dalla fine della guerra fino al processo per l’attentato, cioè dalla fine dei 1918 alla primavera del ’22. Il lavoro di ricerca e di ricostruzione storica che sottende il suo libro – che probabilmente si intitolerà “Mazurka Blu” (dal titolo dello spettacolo in programma al Teatro Diana quella sera) – il suo lavoro, dicevamo, non è ancora finito: ma è a buon punto, tale da rendere possibile un attento riesame dell’intera vicenda.

Terminiamo queste necessarie note di presentazione con l’avvertenza che Mantovani, pur essendo ideologicamente vicino alle posizioni P.D.U.P., nutre simpatia nei confronti dell’anarchismo – almeno in sede storiografica.

Se gli anarchici non se ne curano, la storia la faranno i loro nemici“: così, con questa semplice e pur così vera constatazione, Gaetano Salvemini riuscì a convincere l’anarchico Armando Borghi a scrivere le memorie della sua vita. Un concetto non dissimile esprimeva Vittorio Emiliani quando, nella prefazione alla antologia di scritti di Borghi Vivere da anarchici (da lui curata), affermava che “agli anarchici è toccata una curiosa sfortuna storica, almeno in Italia: o sono stati dipinti a tinte romanzesche, come personaggi avventurosi, pittoreschi e niente più, oppure sono stati passati al vaglio di una storiografia comunista tesa ad accumulare i documenti quasi per un processo dell’anarchismo più che per una critica serena e obiettiva. Né, talvolta, sorte migliore è toccata agli anarchici italiani quando ad occuparsi di loro sono stati storici di formazione riformista“.

Il mio interlocutore insiste più volte su questo concetto rammaricandosi che anche sull’attentato al Diana poco, troppo poco sia stato scritto da parte degli anarchici. Ne convengo subito anch’io, convinto come sono che spesso tacere altro non significa che lasciare campo aperto alle falsità ed alle speculazioni dei nostri nemici. Dunque, la “verità” sul Diana: ecco l’oggetto di questo colloquio con Vincenzo Mantovani.

Le linee essenziali del fatto sono note. Per protestare contro la prolungata detenzione di Errico Malatesta, Armando Borghi e Corrado Quaglino (in carcere da cinque mesi senza ancora essere stati rinviati a giudizio) tre anarchici – Giuseppe Mariani, Giuseppe Boldrini ed Ettore Aguggini – fecero esplodere ben 160 candelotti di dinamite all’esterno del teatro-albergo Diana, la sera del 23 marzo 1921, causando una tragica strage fra il pubblico e gli orchestrali del teatro. Bilancio finale: 21 morti e un’ottantina di feriti. Perché l’attentato fu commesso proprio al teatro Diana?

A questa domanda la trasmissione televisiva “Una parola, un fatto” dedicata all’anarchia non ha voluto rispondere, anzi diciamo pure che non se l’è nemmeno posta. Il che – prosegue Mantovani – è molto grave, perché così facendo si è accreditata la “solita” storia dello anarchico che, spalancata la porta di un teatro, dissemina la morte ed il terrore, coscientemente e volontariamente. Quella sera il carico di esplosivo fu depositato al di fuori del teatro, con l’intenzione di colpire non il teatro quanto il soprastante albergo – che, secondo informazioni allora in possesso degli attentatori, serviva regolarmente da luogo di incontro tra Benito Mussolini ed il questore di Milano Gasti, entrambi acerrimi nemici degli anarchici e da questi ultimi odiati, in particolare, si credeva che proprio quella sera Gasti si dovesse trovare in quell’albergo.

La decisione di attentare al teatro-albergo Diana, comunque, era stata presa all’ultimo momento, poiché – spinti dall’esigenza di “far qualcosa” per appoggiare lo sciopero della fame attuato dall’anziano Malatesta e dagli altri due (Borghi, Quaglino) per ottenere la fissazione del processo – la prima intenzione era stata quella di far saltare in aria la Questura centrale di piazza San Fedele. Nel volume autobiografico del Mariani si parla apertamente di questo primo proposito, che non potè essere attuato per sopravvenute difficoltà d’esecuzione.

Inevitabilmente, il discorso cade sul più generale problema del “terrorismo”, o meglio della pratica terrorista quale fu attuata da un ristretto numero di anarchici (una decina, al massimo) a Milano tra la fine della guerra e l’attentato al Diana. Questo attentato – precisa Mantovani – fu infatti l’ultimo di una serie, anche se certamente il più tragico e clamoroso. Il primo attentato, nel periodo da noi considerato, era stato quello effettuato dal giovane Bruno Filippi al palazzo di Giustizia di Milano, il 29 luglio 1919, per ricordare Gaetano Bresci nel diciannovesimo anniversario del suo riuscito attentato contro il “re buono” Umberto I. In quell’occasione una modestissima bombetta aveva abbattuto un muro, provocando scompiglio tra i magistrati ma nessuna vittima. Due mesi più tardi era sempre il giovane Filippi che, insieme con gli altri due componenti del suo gruppetto terroristico (Guido Villa, Aldo Perego), effettuava un attentato in Galleria contro il caffè Biffi, noto ritrovo dei “pescecani”, cioè dei borghesi arricchitisi coi profitti di guerra. Questo attentato provocava una vittima: il povero Filippi, infatti, saltava in aria con la sua bomba dimostrativa e moriva. Con l’arresto degli altri due suoi compagni e la morte di Filippi, quel primo gruppetto di anarchici terroristi cessava forzatamente la sua attività.

Mantovani ci tiene ad approfondire l’analisi di questi fatti e dei loro autori, poiché e gli uni e gli altri costituiranno poi l’humus dell’attentato al Diana. Indubbiamente quei giovani si rifacevano agli individualisti francesi di fine ‘800 per quanto riguarda l’uso di materiale esplosivo come mezzo di lotta sociale: ma va soprattutto sottolineata la loro netta sensazione di non essere che degli “avamposti” della più generale lotta sociale. In prima fila nei grandi cortei proletari e negli scontri coi tutori dell’ordine, essi stessi d’origine e di collocazione sociale proletaria, Filippi ed i suoi emuli davano tutto se stessi per la causa della rivoluzione sociale. Non disprezzavano la lotta di massa, anzi ritenevano che i loro atti terroristici avrebbero potuto ricondurre sulla via dell’azione diretta quei larghi settori della classe lavoratrice che soggiacevano all’influenza, per loro estremamente negativa, del socialismo riformista. Mai dunque atti individuali fine a se stessi – ribadisce il mio interlocutore – ma sempre collegati, almeno nelle intenzioni, con la più generale lotta rivoluzionaria del proletariato. Mantovani cita come esempio il primo attentato di Filippi, quello contro il palazzo di Giustizia, e sottolinea il valore che nelle intenzioni del suo autore questo gesto doveva avere: dimostrare cioè che la Magistratura con la “M” maiuscola, quella tanto riverita e temuta da tutti, non era poi così inattaccabile, dal momento che qualcuno poteva facilmente seminare il panico nel tempio della giustizia di Stato con una semplice, quasi innocua bombetta. Attentati ben discriminati, dunque, questi degli anarchici milanesi in quel periodo: ben discriminati e “firmati”. Certo – sottolinea Mantovani – gli anarchici hanno sempre firmato i loro attentati: non si poteva pretendere che per firmarli lasciassero sul posto il loro nome o comunque elementi tali da portarli al più presto in galera – sarebbe assurdo il pretenderlo. Ma, comunque, una volta arrestati, quei giovani terroristi non rinnegarono mai le proprie responsabilità, anzi le rivendicarono come atti di lotta contro l’ingiusto sistema sociale. Così appunto fecero Villa e Perego al processo per la bomba al Biffi, così faranno poi Mariani, Boldrini e Aguggini al processo per la strage del Diana.

Per comprendere il clima nel quale si produssero alcuni “botti” di scarso rilievo e quindi quello tragico del Diana è indispensabile fare riferimento alla situazione del vecchio Malatesta, arrestato con altri suoi compagni il 17 ottobre del ’20 in un momento in cui, sconfitto il moto dell’occupazione delle fabbriche, la borghesia riprendeva saldamente in mano le redini del potere, fiancheggiata dal montante fascismo squadrista. L’arresto e la prolungata detenzione di Malatesta costituivano una chiara provocazione nei confronti della sinistra: eppure nessuno – a parte il capitano Giuseppe Giulietti, segretario della federazione dei lavoratori del mare e amico personale di Malatesta (era stato lui a renderne possibile il rimpatrio clandestino nel dicembre del ’19) – nessuno si era mosso in favore del vecchio anarchico e dei suoi compagni. Questo silenzio dei socialisti ed in genere del movimento operaio provocava tra gli anarchici una profonda insofferenza, quasi la sensazione di essere stati lasciati soli proprio in una circostanza particolarmente dura. Confrontando poi questo atteggiamento delle altre forze di sinistra con le entusiastiche accoglienze riservate a Malatesta all’indomani del suo rientro in Italia da parte di tutto il proletariato, gli anarchici “sentivano” che fosche nubi si addensavano all’orizzonte. Si aggiungano le sempre più criminali imprese delle squadracce nere, l’ormai lampante connivenza delle autorità con le bande di Mussolini e camerati, il forzato allontanarsi della vittoria rivoluzionaria: il quadro non era certo allegro.

Quando poi uscì dalle carceri di San Vittore la notizia che il quasi settantenne Malatesta aveva iniziato (il 18 marzo) uno sciopero della fame a tempo indeterminato, per ottenere la sola fissazione del processo, la tensione tra gli anarchici riprese a salire. Il “caso Malatesta” era di nuovo sui giornali, dopo mesi di complice silenzio; Umanità Nova usciva in quei giorni con titoloni a tutta pagina invitando alla mobilitazione in sostegno degli scioperanti, rimproverando quanti continuavano a non far niente per Malatesta dopo averlo tanto acclamato in passato. Il 23 marzo – quinto giorno dello sciopero della fame dei reclusi – mentre ormai tra gli anarchici si cominciava parlare della possibile morte del vecchio Malatesta, si diffuse la notizia che probabilmente in giornata il giudice istruttore avrebbe concesso la libertà provvisoria ai tre anarchici.

A questo punto conviene ritornare al gruppetto terroristico composto da Aguggini, Boldrini e Mariani – questi ultimi due chiamati a Milano da Mantova dal primo, per “fare qualcosa” insieme in favore di Malatesta. Datisi appuntamento in un prato di periferia per la sera del 23, vennero informati che nessun fondamento avevano le voci circolanti in città relative alla concessione della libertà provvisoria ai tre anarchici detenuti a San Vittore: il giudice istruttore, infatti non aveva concesso ciò che essi avevano sperato. Nell’ascoltare quella brutta notizia, i tre si decisero che era davvero giunta l’ora. Malatesta era sul punto di morire: non c’era più tempo da perdere. Certo in quei momenti ben vivo doveva essere alle loro menti il ricordo della tragica vicenda del sindaco della cittadina irlandese di Cork, il quale non molti mesi prima si era lasciato morire di fame in carcere (anche Umanità Nova aveva a suo tempo seguito quella vicenda): in ogni modo, a ogni costo, Malatesta doveva vivere – questo il loro pensiero, questo il pensiero di tutti gli anarchici.

Raggiunto il teatro Diana, vi depositarono all’esterno il carico micidiale e si allontanarono. Ciò che avvenne in quei momenti non ha mai potuto essere ricostruito con sicurezza; secondo una versione, un legionario fiumano avrebbe spostato la dinamite all’ultimo momento prima dell’esplosione. Ma niente – lo ripetiamo – è stato provato, né mai lo potrà essere. Con tutta probabilità. Sta di fatto che l’orrenda esplosione ebbe luogo, con le luttuose conseguenze cui già abbiamo accennato.

Nel breve volgere di poco tempo bande armate fasciste distrussero sia la sede di Umanità Nova sia quella dell’U.S.I., tentando poi l’assalto alla nuova sede dell’Avanti! Subito dopo ebbe inizio la sistematica “caccia all’anarchico” da parte della polizia: decine ne furono fermati, minacciati, incarcerati, finché si arrivò all’individuazione del terzetto responsabile della strage. Diciassette altri anarchici, assolutamente estranei al fatto, furono accomunati dalla polizia a Mariani, Boldrini ed Aguggini: tutti insieme furono processati nella primavera del ’22, in quella stessa Milano ormai sempre più in balia dello squadrismo nerocamiciato.

Oltre alle tre condanne all’ergastolo per i tre autori della strage, decine di anni di galera vennero inflitti agli innocenti cinicamente travolti dalle manovre congiunte della polizia e della magistratura.

Errico Malatesta, nel frattempo (luglio ’21), era stato assolto da tutte le accuse mossegli dalla polizia: la magistratura aveva dovuto liberarlo confermando così clamorosamente l’ingiustizia della sua lunga detenzione. Anche di ciò bisogna tener conto – sottolinea Mantovani – nel valutare la vicenda del Diana. La liberazione di Malatesta assumeva infatti il valore di una conferma delle ragioni che avevano spinto i tre terroristi al loro tragico gesto di protesta e di solidarietà.

P. F.

***

L’opinione di Malatesta

Assolto nel luglio del ’21 da tutte le accuse mossegli, Errico Malatesta riprendeva il suo posto alla direzione del quotidiano anarchico “Umanità Nova”. Quando, nel maggio dell’anno successivo, si teneva a Milano il processo contro gli attentatori al Diana (e contro altri diciassette anarchici assolutamente estranei al tragico fatto), Malatesta pubblicava un articolo dal significativo titolo “Tormento d’animo”. Ne riproduciamo ampi stralci.

Mentre a Milano si svolgono dolorose le tristi scene del processo, una tempesta spirituale agita gli animi dei compagni.

Quegli uomini (parlo dei confessi, chè gli altri sono vittime delle malvagie ambizioni poliziesche dei Gasti e dei Rizzo) quegli uomini uccisero e straziarono nella carne umana, carne d’inconsci e d’innocenti, senza criterio di giustizia e senza utilità per alcuno.

Forse essi non si rendevano conto della forza terribile della loro macchina infernale e quello che voleva essere una protesta incruenta fu invece una strage immane; ma i morti, i mutilati son là, e l’orrore della cosa agghiaccia il cuore, offende il senso profondo di umanità che sta in ogni uomo normale e non lascia tempo o serenità per un esame rigoroso ed un calcolo esatto delle responsabilità. Comprendo: comprendo che ciò sia per un tempo, ma non comprendo che il dolore e l’orrore abbiano ad offuscare permanentemente la ragione, o altrimenti fra gli orrori simili e peggiori che avvengono tutti i giorni, le sorti della civiltà, le sorti dell’umanità sarebbero compromesse e perdute per sempre.

Gli anarchici che sanno comprendere le influenze determinanti dell’ambiente tante volte in contrasto con le spinte intime della volontà, gli anarchici che intendono le necessità crudeli dei conflitti sociali in una società retta dalla violenza e sono disposti a lottare senza debolezza fino al trionfo della libertà e della giustizia per tutti, ma lo fanno senza odio e pronti sempre a perdonare e dimenticare, gli anarchici soffrono come gli altri e più degli altri di ogni violenza eccessiva, di ogni dolore inflitto senza necessità – e nel caso dell’eccidio del “Diana” non avrebbero che da dolersi come di qualsiasi altro grande delitto o altra grande disgrazia.

Ma quegli uomini, i bombardieri del “Diana”, erano compagni nostri, buoni compagni nostri, pronti sempre al sacrificio per il bene degli altri, e nel compiere il loro tragico ed infausto gesto intendevano fare opera di sacrificio e di devozione. Quegli uomini hanno ucciso e straziato degli incolpevoli in nome della nostra idea, in nome del nostro e del loro sogno d’amore.

E qui sta la tragedia che tormenta tanti nostri compagni.

Rivendicare il fatto, tanto contrario ai nostri sentimenti ed agli interessi della nostra propaganda, è assurdo, impossibile.

Condannare gli autori è ingeneroso, ingiusto, impossibile.

Bisogna comprendere (…)

I dinamitardi del “Diana” furono travolti da una nobile passione, ed ogni uomo dovrebbe arrestarsi innanzi a loro pensando alle devastazioni che una passione, anche sublime, può produrre nel cervello umano (…)

A rivista anarchica n12 Aprile-Maggio 1972 Il solito imbroglio. Le elezioni del 7 maggio – Una falsa eccezionalità – La candidatura Valpreda. – Scheda rossa e scheda rosa – L’astensionismo rivoluzionario degli anarchici di A. di Solata

18 ottobre 2011

“Il suffragio universale, io credo, è l’esibizione più completa e nello stesso tempo più raffinata della ciarlataneria politica dello stato, uno strumento pericoloso, senza dubbio, e che richiede una grande abilità da parte di chi se ne serve, ma che, per chi sa ben servirsene, è il mezzo più sicuro per far cooperare le masse alla costruzione della loro stessa prigione”

M. Bakunin.

A un mese dalle elezioni, la campagna pubblicitaria è ancora abbastanza fredda, nonostante tutto. E impareggiabilmente monotona. Ricompaiono sugli squallidi tabelloni i consunti simboli, i soli nascenti, gli scudi crociati, le falci-martello, le fiamme tricolori, le foglie d’edera,… vecchi marchi di fabbrica di vecchia merce avariata.

Con gli slogans pubblicitari, si sa, si va a mode (il “bianco – più – bianco”, il “biologico”…): i mercanti della politica quest’anno hanno scelto per la loro immagine elettorale il filone dell'”ordine”. Tutti promettono ordine, dai fascisti ai comunisti. Ordine e democrazia, naturalmente: tutti, dai comunisti ai fascisti. Tutti cercano così di raccogliere i frutti di tre anni di provocazioni, di attentati fascisti, di strategia della tensione. Perfettamente a loro agio in questo filone pubblicitario i democristiani ed i neo fascisti del PSDI, più truculenti i missini, più goffi i comunisti.

Assieme all’universale amore d’ordine la campagna elettorale mostra sin dagli inizi un altro tratto comune: la simulata convinzione dei politicanti (che essi cercano di trasfondere nell’elettorato) che le prossime consultazioni presentino caratteri di eccezionalità. Per la destra esse saranno la squilla della riscossa anti-comunista, per la sinistra esse devono costruire una barriera di voti contro il neo-fascismo. Tra i due estremi il centro se la gode… un po’ meno del solito e strilla che da queste elezioni deve essere sancito il rifiuto degli opposti estremismi, ecc. Tutto questo alone di eccezionalità non stupisce: è un vecchio trucco da ciarlatani (“vendita straordinaria”, “saldi di fine stagione”…) per attirare una clientela sempre meno interessata alla loro merce.

Meno comprensibile è l’importanza che a questa faccenda delle elezioni vogliono dare quei neo-rivoluzionari che, acerrimi nemici del “revisionismo” invitano a votare per i “revisionisti” o quelli che, acerrimi nemici e spregiatori del parlamento borghese si presentano come candidati. I secondi fanno del 7 maggio un momento basilare di crescita organizzativa delle forze rivoluzionarie, i primi ne fanno una scadenza antifascista di vitale importanza. Gli uni e gli altri motivano la loro contraddizione con le contraddizioni del sistema, di cui essi profitterebbero per fare un uso anti-borghese degli strumenti borghesi.

Vediamo un po’ questa paura dello slittamento a destra che dovrebbe portare i rivoluzionari alle urne. Il pericolo si basa sostanzialmente su tre fenomeni: il rafforzamento del M.S.I., l’accentuarsi della repressione, la rinata vocazione centrista della DC e dei partitini moderati PRI e PSDI. Esaminiamoli.

Il rafforzamento dell’MSI, cioè una radicalizzazione della destra, è naturale e prevedibile effetto delle vicende economico-politiche di questi ultimi anni, la risposta dei ceti più reazionari alla crisi economica e insieme alle riforme (più minacciate che attuate) ed alla rivoluzione (solo minacciata). Questo rafforzamento dei neo-fascisti, che supererà quasi certamente la misura di due-tre punti percentuali, non potrà avere alcuna influenza sulle scelte di governo, anche perché sarà accompagnato probabilmente da un simmetrico, seppur più lieve, rafforzamento del PCI e del PSI. Semmai una moderata pulizia a destra delle frange più reazionarie dell’elettorato democristiano attivo e passivo potrebbe in teoria favorire una più coerente ed agile collocazione di centro-sinistra della DC.

Senonché l’arresto e forse l’arretramento della DC sul cammino degli equilibri più avanzati, della collaborazione sempre più diretta e determinante dei sindacati e del PCI con la politica governativa, sono determinati da ben altri motivi che non la “contabilità” parlamentare. Non è infatti nel parlamento, non dimentichiamocelo se siamo rivoluzionari e materialisti, che vengono fatte le scelte politiche: in parlamento esse vengono solo “rappresentate“. La rinata vocazione centrista (cioè l’annacquamento della strategia delle riforme) è legata al perdurare della stagnazione economica, della inflazione, della bassa produttività, cioè alla impossibilità del sistema di reggere una politica seria di riforme.

Alle stesse radici economiche si deve far risalire la crescente repressione, scoperta o strisciante, diretta contro i movimenti extraparlamentari e contro le minoranze operaie ribelli a quel minimo di pace sociale che è indispensabile ai padroni per programmare l’economia e allergiche a quel piano di incremento della produttività senza il quale è impossibile la ripresa dell’economia ed il finanziamento delle riforme. Il dato più preoccupante per i padroni è che le lotte operaie nel ’71 e nei primi mesi del ’72 sono aumentate rispetto al ’70 anziché calare (e c’è in vista l’autunno…), così come s’è generalizzato il rifiuto di intensificare i ritmi di lavoro. I sindacati non sono riusciti a mantenere la conflittualità entro limiti accettabili, nonostante una continua affannosa rincorsa di recupero dietro tutte le lotte autonome.

Ecco allora spiegato lo “slittamento a destra” del governo e l’aumento della repressione, che non hanno nulla a che vedere con una supposta “fascistizzazione” progressiva dello stato (in senso stretto, perché in senso lato lo stato è sempre fascista e tanto più quello italiano che ha conservato del fascismo storico le strutture portanti). Anche il rinnovellato plateale anti-comunismo dei democristiani e dei loro botoli repubblicani e socialdemocratici non è altro che fumo parolaio, dietro il quale c’è la sostanza della impossibilità di proseguire il “discorso a sinistra” sinché non si ripresentano le condizioni economiche ed i presupposti politici per riaprirlo.

Se queste sono, come noi crediamo, le cause dello slittamento a destra esso continuerà dopo il 7 maggio indipendentemente da previsti o imprevisti (comunque lievi) travasi di voti. Così come si cercherà di ridurre l’agibilità politica delle minoranze rivoluzionarie indipendentemente dall’indebolimento improbabile o dal probabile rafforzamento del PCI. La repressione di queste minoranze è destinata ad inasprirsi così come, soprattutto, la repressione della rinata, episodica, frammentaria, fragile ma pericolosissima (per i padroni) autonomia operaia.

Aspettarsi dal PCI la difesa di uno spazio politico alla sua sinistra è veramente ingenuità sorprendente per dei rivoluzionari, quando è evidente che la riduzione di tale spazio, cioè un riacquistato efficiente controllo sulla forza operaia, è condizione necessaria per la realizzazione della strategia di governo dei comunisti.

Questi rivoluzionari che, contro la logica, ai primi accenni repressivi cercano l’aiuto di mamma PCI dimostrano chiaramente di non aver ancora superato la loro adolescenza politica. Oltre tutto peccano di presunzione o non sanno fare di conto se pensano che i voti degli extra-parlamentari possano pesare sui risultati elettorali.

Oltre ai “rivoluzionari” che votano “scheda rosa” per paura della DC e dei fascisti, queste elezioni vedono anche i rivoluzionari che invocano per sé “schede rosse”, in una inflazione mai vista di falci e martelli. Queste mini caricature del PCI (come il PCI-m.-l., ex “Unione”) sono naturalmente folclore e non meritano un discorso politico. Né lo meriterebbero quelli del Manifesto, se non avessero tirato in ballo gli anarchici mettendo in lista Valpreda, pubblicando sul loro quotidiano lettere fasulle attribuite ad anarchici (o forse lettere autentiche di anarchici fasulli) che promettono il loro voto, scrivendo articoli zeppi di errori (o falsi) storici a proposito di anarchici, di astensionismo, di candidature protesta, ecc.

A questi signori ed al loro quotidiano hanno risposto adeguatamente le prese di posizione di tutte le organizzazioni anarchiche italiane dichiaratesi contrarie senza mezzi termini alla candidatura Valpreda (nello stesso senso s’è espresso all’unanimità il Convegno unitario del Movimento Anarchico riunitosi a Carrara l’8-9 aprile, presenti 300 delegati vecchi e giovani di ogni parte d’Italia). A quei signori ha già risposto per le rime il settimanale anarchico Umanità Nova ed il quindicinale L’Internazionale.

D’altro canto il gioco di questi vecchi politicanti non è riuscito nemmeno con le altre organizzazioni marxiste-leniniste: i tre possibili “grandi elettori” della sinistra extra-parlamentare, Lotta Continua, Potere Operaio e Avanguardia Operaia, non voteranno o voteranno scheda nulla, non si sa bene se più per gelosie e rivalità non risolte o per scarsa forza di convincimento delle motivazioni elettorali del Manifesto. Motivazioni riprese dal vecchio armamentario ottocentesco dei primi socialisti parlamentaristi (e poi saremmo noi gli ottocenteschi!): le elezioni come momento di “conta”, la campagna elettorale come occasione di agitazione politica, l’uso del Parlamento come tribuna per una “testimonianza rivoluzionaria” che rifiuta anche il ruolo di “opposizione funzionale”. A tutto questo è stato aggiunto il pepe della “candidatura-protesta” (anch’essa una vecchia trovata ottocentesca).

A queste motivazioni gli anarchici non hanno bisogno di trovare risposte diverse da quelle che in passato hanno già dato ai padri del trasformismo rivoluzionario-riformista. La risposta più convincente, del resto, l’ha data la storia, smascherando quelle motivazioni per quello che erano: copertura ideologica (in buona o mala fede, non ha nessuna importanza) della fase di transizione tra il socialismo rivoluzionario (delle lotte sociali, dell’inconciliabilità delle classi sfruttatrici e sfruttate, della nuova società costruita dal basso, del rifiuto dei padroni) ed il socialismo riformista (dei patteggiamenti parlamentari, dell’interclassismo, della vecchia società puntellata con le riforme, del cambio dei padroni). Il caso più esemplare, perché più sfacciato, fu forse quello di Andrea Costa, ex anarchico, socialista rivoluzionario convertitosi all’elettoralismo “tattico”, il quale motivò la sua candidatura in termini analoghi a quelli del Manifesto ma ancora più radicali, garantendo al suo elettorato che non sarebbe mai entrato nel Parlamento borghese… ed una volta eletto si rimangiò tutto, giurò fedeltà al re e si sedette alla Camera divenendo un riformista ortodosso.

Come i paladini di un “parlamentarismo tattico” servirono cent’anni fa a recuperare al riformismo i socialisti rivoluzionari così – fatte le debite proporzioni! – il Manifesto sembra confermare il ruolo, che gli è stato già rinfacciato, di recuperatore della sinistra extra-parlamentare.

Gli anarchici hanno avuto raramente dubbi su come comportarsi in occasione delle giostre elettorali e quando li hanno avuti è stato in situazione di eccezionalità neppure lontanamente paragonabili a questa consultazione. Non basta certo un minuetto governativo, un Valpreda candidato, per rompere il tradizionale astensionismo degli anarchici, un astensionismo rivoluzionario, non certo qualunquistico, che da cento anni li caratterizza e che puntualmente confermano, con rara ostinata coerenza, e motivano ad ogni occasione.

Le motivazioni sociologiche, storiche, economiche, politiche e psicologiche con cui gli anarchici non solo non votano ma combattono attivamente il voto sono abbastanza note e investono in una critica lucida e definitiva tutti gli aspetti sia della delega di potere in sé, sia della natura del parlamento borghese, del potere statale e del suffragio universale.

C’è poco da aggiungere alle analisi già fatte, alle spiegazioni ripetute ad ogni occasione ed in buona parte, del resto, fatte proprie dalla sociologia più “spregiudicata”, sia di destra (Michels, Pareto, Mosca…) che di sinistra. Vogliamo in questa sede solo sottolineare una evoluzione nelle strutture di potere che rende ancora più formale il “potere legislativo” del parlamento e quindi ancora più valida la critica anarchica alla illusorietà della “lotta” parlamentare. Questa evoluzione è il progressivo trasferimento del potere politico reale dal legislativo all’esecutivo. Il potere esecutivo si rafforza ininterrottamente. Questo processo è iniziato nella maggior parte dei paesi, nel corso della prima guerra mondiale, ma in alcuni paesi è iniziato prima. In Germania, ad esempio, la predominanza dell’esecutivo è divenuta operante proprio con la comparsa stessa del suffragio universale.

Oggi tale evoluzione è talmente avanzata che non è più possibile credere che sia veramente il parlamento a governare, a dirigere lo stato. Il potere dello stato è un potere permanente, esercitato da un certo numero di istituzioni autonome dall’influenza instabile del suffragio. Sono questi organi che bisogna esaminare per scoprire dove risiede il vero potere. I governi vanno e vengono, ma la polizia, l’amministrazione, rimangono. Lo stato consiste innanzitutto di queste istituzioni: esercito (ufficiali e sottufficiali di carriera, carabinieri, truppe speciali, ecc.), la polizia, i ministeri, la magistratura, gli enti assistenziali (INPS, INAM,…), le grandi aziende e i trust “pubblici” (ENI, IRI,…), ecc., cioè le istituzioni non vincolate dall’influenza del suffragio.

Il potere di queste istituzioni si rafforza continuamente. Se dunque ai tempi d’oro del Parlamento, all’epoca del capitalismo privato, giovane e concorrenziale, il potere reale era già fuori del Parlamento che svolgeva solo il ruolo di mediatore tra i diversi gruppi borghesi in continua contrapposizione per gli interessi settoriali, regionali, corporativi, che rappresentavano, esso risiede ora più che mai fuori dal Parlamento, nei centri di potere economico privati e statali e negli alti gradi degli apparati statali (con una fusione progressiva, sia detto per inciso, di potere politico e di potere economico che rende discutibile la tipica subordinazione borghese del primo al secondo ed in prospettiva addirittura capovolgere la situazione).

L’unico episodio di rilievo nella storia del movimento anarchico, relativo ad una scelta tattica diversa dall’astensionismo, è quella delle elezioni spagnole del febbraio 1936. Nelle galere spagnole erano rinchiusi oltre trentamila prigionieri politici, di cui buona parte anarchici ed anarco-sindacalisti ed una vittoria elettorale del “Frente Popular” avrebbe portato alla loro liberazione. Al fronte popolare si opponeva un fronte “nazionale” accentuatamente reazionario. Dopo accesissimi dibattiti interni, la C.N.T., grande organizzazione anarco-sindacalista forte di oltre un milione di iscritti, decise di astenersi dalla tradizionale campagna anti-elettorale, invitando così implicitamente se non proprio esplicitamente i suoi simpatizzanti a votare per il fronte popolare. Con il determinante apporto dei voti “cenetistas“, il fronte popolare vinse le elezioni ed i compagni furono liberati. Senza entrare nel merito della validità di tale scelta (tuttora discussa nel movimento anarchico, soprattutto perché in essa si vedono o si vogliono vedere i primi germi della successiva perniciosissima deviazione “ministeriale” della C.N.T.) bisogna comunque sottolineare che essa nacque in una situazione veramente eccezionale: trentamila compagni sono trentamila compagni ed è anche grazie alla liberazione di questi prigionieri politici (tra i quali si trovavano molti dei militanti più attivi e coraggiosi) che cinque mesi dopo le elezioni la C.N.T. poteva assaltare le caserme ed alzare le barricate per bloccare il colpo di stato fascista.

Una situazione, quella spagnola del ’36, certamente eccezionale anche per altri versi ed una scelta eccezionale che nessun’anarchico, neppure quelli che la giustificano, si sognerebbe mai di generalizzare e tanto meno (come ha cercato di fare goffamente il “Manifesto”) di riferire alla situazione italiana di oggi. Se non altro perché la C.N.T. poteva influenzare la scelta di un paio di milioni di lavoratori, tra iscritti e simpatizzanti, cioè una fetta decisiva dell’elettorato.

Comunque sia, l’esperienza spagnola del ’36 è soprattutto illuminante per un altro verso (e con significati proprio anti-elettorali): dopo la vittoria del Frente Popular il fascismo, tutt’altro che domato dalla sconfitta elettorale, giocava la carta del colpo di stato e fu sulle piazze prima e nelle trincee dopo che il popolo dovette combatterlo in una lunga, eroica, tragica, sfortunata guerra civile.

Non è con il voto – ecco il primo insegnamento – che si vince il fascismo, se ad esso i padroni hanno deciso di ricorrere come estrema risorsa controrivoluzionaria. In secondo luogo la C.N.T., per nulla addormentata sugli allori elettorali (altrui), seppe organizzare l’insurrezione prima e la rivoluzione poi, ed ecco un’altra indicazione, in apparenza banale ma che spazza via tanta falsa problematica: se un movimento rivoluzionario ha una forza numerica tale da pesare elettoralmente, esso ha anche la forza di fare la rivoluzione e questo è il suo compito.

Da quanto abbiamo detto sin qui dovrebbe risultare chiaro che l’astensionismo non è per gli anarchici un feticcio, un dogma della tradizione ottocentesca, ma una scelta motivata razionalmente, una scelta di coerenza e di chiarezza rivoluzionaria cui lo sviluppo socio-economico e le esperienze parlamentaristiche hanno puntualmente dato conferma. Questo significa anche che gli anarchici, pur non sopravvalutando il momento astensionistico (che sarebbe un errore simmetrico, cioè uguale ma di segno opposto, a quello di chi vorrebbe ricondurre la politica alle elezioni), non lo limitano però ad una passiva non partecipazione al gioco elettorale, ma lo sostanziano attivamente con la demistificazione della “democrazia” parlamentare e dei meccanismi con cui lo stato simula il consenso popolare.

La crescita rivoluzionaria degli sfruttati passa anche attraverso il rifiuto di collaborare con lo stato, di lasciarsi coinvolgere nella politica dei padroni. La politica degli sfruttati è quella delle loro lotte nelle fabbriche, nei quartieri, nei campi, nelle miniere, negli uffici, è quella della loro faticosa conquista di una coscienza, è quella della costruzione della loro solidarietà organizzata, è quella della rivoluzione sociale egualitaria e libertaria.

A. di Solata

L’opinione di Malatesta

In una lettera del marzo 1897 al giornale anarchico “l’Agitazione” di Ancona, Errico Malatesta (1853-1932) esprimeva la sua opinione sulle candidature protesta. Un’opinione autorevole, perché Malatesta era allora e sarà poi fino alla morte il più prestigioso esponente dell’anarchismo italiano. Una opinione autorevole, perché proveniva da chi dei suoi venticinque anni di militanza politica aveva passato la maggior parte in galera e in esilio (e così sarà del resto della sua vita).

“… I nostri compagni di Roma portano candidato l’amico nostro Luigi Galleani, domiciliato coatto, ed altre candidature-protesta pare sieno state messe in altri posti. È difficile e penoso per noi dire franca e schietta la nostra opinione. Quando degli uomini che noi stimiamo ed amiamo e che molto hanno fatto e più ancora faranno per la causa nostra, stanno in galera o al domicilio coatto, e si propone un mezzo per farli mettere fuori, come si fa a dire, per quanto cattivo sia il mezzo: no, lasciateli dentro!

Nullameno faremo forza a noi stessi ed apriremo intero l’animo nostro. Se altri ci troverà troppo intransigenti, ce lo perdoni in considerazione che in carcere ed al coatto ci siamo stati anche noi, che siamo sempre esposti a tornarci e che possiamo permetterci di essere severi con gli altri perché abbiamo la coscienza che sapremmo essere severi con noi stessi. In quanto agli amici candidati essi ce lo perdoneranno di certo perché essi sapranno apprezzare i nostri motivi: anzi di alcuni di loro sappiamo che sono completamente d’accordo con noi sull’argomento.

La candidatura-protesta, soprattutto quando si è sicuri che l’eletto non vorrà ad alcun costo fare il deputato, non è per se stessa contraria ai nostri principi e nemmeno alla nostra tattica; ma è nullameno una porta aperta all’equivoco ed alle transazioni. È il primo passo su di un pendio sdrucciolevole sul quale difficile è l’arrestarsi. (…)

Le candidature-protesta ci han ridato qualche compagno e noi ce ne rallegriamo di cuore. Ma non possiamo nasconderci che esse hanno fatto al nostro partito un torto grandissimo. La candidatura Cipriani, per esempio, riuscì a liberare il Cipriani; ma fu per essa che si insinuò il parlamentarismo in Romagna e ruppe la compagine anarchica di quella regione. Con questo noi non intendiamo biasimare i compagni di Roma. Al contrario comprendiamo ed apprezziamo i loro motivi generosi. Solo ci lamentiamo che il nostro partito sia in così tristi condizioni da non poter far altro a pro’ dei nostri proscritti che ricorrere al mezzo debole e pericoloso delle candidature di protesta.

Lavoriamo, propaghiamo, organizziamo e potremo in seguito ottenere a favore dei nostri delle manifestazioni dell’opinione pubblica ben più significative ed efficaci delle elezioni…”