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Strage di bologna

7 aprile 2023

sentenza processo Bellini

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20/08/2022

22 agosto 2022

( Dal Manifesto, un articolo di Andrea Sceresini )
Le trame nere di Guérin-Serac
Ombre del Novecento . Sulle tracce di un uomo senza volto e senza storia, protagonista della destra internazionale

Il 9 marzo scorso, in Francia, è morto un uomo che per tutta la vita ha cercato di non farsi trovare. Aveva 95 anni, era nato a Ploubezre, in Bretagna, e il suo nome era Yves Guillou. Nel ricovero per anziani di Le Revest-les-Eaux, il villaggio alle porte di Tolone dove ha trascorso gli ultimi cinque anni della sua esistenza, tutti lo ricordano come un signore sorridente e pacifico, la cui indole taciturna era certo da attribuirsi al morbo di Alzheimer di cui soffriva da tempo. Nessuno, a Le Revest-les-Eaux, poteva immaginare che quel vecchino dai modi gentili, con i capelli argentati e lo sguardo un po’ vacuo, avesse qualcosa di terribilmente inquietante da nascondere.
Portogallo
Era il 22 maggio 1974 quando un plotone di fucilieri di marina al comando del tenente Matos Moniz fece irruzione al civico 13 di Rua das Praças, nel centro di Lisbona. In Portogallo era scoppiata la rivoluzione dei Garofani, e il Movimento das Forças Armadas stava dando la caccia a tutti i collaboratori del vecchio regime neofascista. Al 13 di Rua das Praças – secondo alcune segnalazioni – aveva sede una finta agenzia stampa che agiva sotto copertura per contro della Pide, la polizia politica di Salazar, e dunque bisognava andare a darci un’occhiata. Il nome dell’organizzazione era «Aginter Press» e i suoi uffici consistevano in quattro stanzoni stracolmi di carte e schedari. Al tenente Matos Moniz bastarono pochi attimi per intuire che ad «Aginter Press» ci si occupava di tutto tranne che di giornalismo: c’erano macchinari per la fabbricazione di documenti falsi e microfilm, manuali di controguerriglia, lunghi schedari con nomi di militanti di estrema destra, appunti sulla guerra psicologica, sulla sovversione e sui colpi di Stato. Uno dei faldoni conteneva un breve foglio dattiloscritto, «La nostra azione politica». Il testo, in francese, recitava così: «Noi pensiamo che la prima parte della nostra azione politica debba essere quella di favorire l’installazione del caos in tutte le strutture del regime. Questo porterà a una situazione di forte tensione politica, di paura nel mondo industriale, di antipatia verso il governo e verso tutti i partiti. In questa prospettiva deve essere pronto un organismo efficace capace di riunire attorno a sé gli scontenti di ogni classe sociale: una vasta massa per fare la nostra rivoluzione». I militari portoghesi non potevano saperlo, ma il nome di quella strana agenzia era già comparso cinque anni prima in un appunto redatto dai servizi segreti italiani all’indomani della strage di piazza Fontana, il 17 dicembre 1969: «La mente organizzatrice [degli attentati] – vi si leggeva – sarebbe tale M. Guérin-Sérac, cittadino tedesco, il quale risiede a Lisbona ove dirige l’Agenzia Ager Interpress». Il vero nome di Guérin-Sérac – che aveva cittadinanza francese e non tedesca, essendo nato a Ploubezre, in Bretagna, nel 1926 – era Yves Guillou.
Banca dell’Agricoltura
Cosa fosse esattamente «Aginter Press» probabilmente non lo scopriremo mai. Grazie alle ricerche dei giudice Guido Salvini, che negli anni Novanta condusse l’ultima inchiesta sull’eccidio della Banca Nazionale dell’Agricoltura, sappiamo che la finta agenzia stampa di Rua das Praças fu fondata nel settembre 1966 da Yves Guillou e dal suo braccio destro Robert Leroy, un ex membro della Legione Wallonien delle Waffen SS. Guillou aveva all’epoca quarant’anni e si proclamava un paladino dell’anticomunismo più intransigente. Giovane ufficiale dell’undicesimo Régiment parachutiste de choc, aveva combattuto in Corea, Indocina e Algeria. Nel 1962 aveva aderito all’Oas, l’organizzazione terroristico-militare che si opponeva alla decolonizzazione del Nordafrica francese. Poi, dopo la vittoria del Fln, aveva trovato rifugio nel Portogallo di Salazar «per continuare la lotta ed estenderla alla sua vera dimensione, che è quella del pianeta», come avrebbe specificato in uno dei suoi rari interventi pubblici. I mezzi, ovviamente, non sarebbero stati quelli di Gandhi.
In Italia
A cominciare dalla metà degli anni Sessanta, Guillou e Leroy iniziarono a stringere legami operativi con i maggiori gruppi eversivi del neofascismo mondiale. In Italia i principali contatti furono con Ordine Nuovo ed Avanguardia Nazionale, i cui militanti venivano invitati in Portogallo per addestrarsi all’uso delle armi e degli esplosivi. È certo che tra il 30 gennaio e l’1 febbraio del 1968 Yves Guillou ebbe un lungo incontro con Pino Rauti, mentre i rapporti con Stefano Delle Chiaie si sarebbero prolungati per buona parte degli anni Settanta. Così, nel giro di poco tempo, «Aginter Press» divenne la centrale operativa della cosiddetta «Internazionale nera», le cui spire si estendevano dall’Europa occidentale al Sudafrica dell’Apartheid.
Africa
Nel Terzo Mondo gli uomini di Aginter si misero al servizio dei movimenti anti-decolonizzazione, organizzando attentati e operazioni di controguerriglia in Algeria, Repubblica del Congo, Tanzania, Angola e Costarica. Sarebbero stati loro – secondo gli inquirenti italiani – ad assassinare nel 1969 il leader del Fronte di Liberazione del Mozambico Eduardo Mondlane, «reo» di essersi ribellato alle autorità portoghesi. Ma la vera specialità dei «lisbonesi» era soprattutto l’infiltrazione: sul finire degli anni Sessanta, dopo essersi spacciato per un reporter maoista, l’ex Waffen SS Robert Leroy riuscirà a intrufolarsi in diversi gruppi dell’estrema sinistra italiana, spingendoli su posizioni eversive e offrendo loro armi e tritolo. «A nostro avviso – si legge ancora nel documento La nostra azione politica -, la prima azione che dobbiamo lanciare è la distruzione delle strutture dello Stato sotto la copertura dell’azione dei comunisti e dei filocinesi. Ciò creerà un sentimento di antipatia verso coloro che minacciano la pace di ciascuno e della nazione». È lo schema-base di quella che sarà chiamata la strategia della tensione: organizzare attentati, farne cadere la responsabilità sui gruppi di sinistra e innescare così la reazione repressiva dello Stato. Di lì a poco ci sarà la strage fascista del 12 dicembre – e il capro espiatorio, non a caso, saranno gli anarchici.
Ha dichiarato alcuni anni fa l’ex terrorista nero Vincenzo Vinciguerra, già militante di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, e autore, nel 1972, dell’attentato di Peteano: «Gli agenti di Guillou parteciparono direttamente ai fatti italiani, compresa l’operazione di piazza Fontana». Vinciguerra e Guillou si sono conosciuti a Madrid nel 1974. Erano entrambi latitanti: il primo fuggiva da un mandato di cattura della magistratura italiana, il secondo aveva dovuto abbandonare precipitosamente Lisbona dopo il trionfo della rivoluzione dei Garofani. «Ideologicamente, Guillou era un fondamentalista cattolico – racconterà Vinciguerra -. Era un uomo molto pericoloso, molto affascinante e molto intelligente. Alle sue spalle c’erano senza dubbio i servizi segreti americani: l’obiettivo era sconfiggere i movimenti operai e stabilizzare l’Europa in senso anticomunista».
Volantini
Quale sia stato l’esatto ruolo di «Aginter Press» nella strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura non è dato a sapersi. Di certo, oltre a quella celebre velina del 17 dicembre, c’è il fatto che vicino al luogo dell’eccidio furono rinvenuti alcuni finti volantini ornati di bandiere rosse, con la scritta: «Autunno 1969, l’inizio di una lotta prolungata». Spiegherà l’allora sostituto procuratore Ugo Paolillo, che fu il primo magistrato a indagare sulla strage: «Accertammo che la carta veniva dalla Svizzera e che i manifesti erano ricollegabili all’Oas». E poi: «Era una firma che riconduceva a Guérin-Sérac, il responsabile militare dell’Aginter Press. Proprio di Sérac mi parlò una persona, forse collegata ai servizi segreti, che chiese di vedermi a poche ore dalla strage. Non fidandomi registrai il colloquio. Purtroppo quel nastro è andato perduto».
Nella primavera del 1974, mentre gli uomini del comandante Matos Moniz facevano irruzione a Rua das Praças, i reduci di «Aginter Press» avevano già trovato rifugio nella Spagna franchista. Da lì, grazie anche al supporto di Vinciguerra e di altri «fuoriusciti» italiani, organizzarono numerose operazioni di «controguerriglia» in Portogallo e nelle isole Azzorre, nel vano tentativo di rovesciare il nuovo governo antifascista. L’impresa più clamorosa risale però all’estate del 1975, quando Guillou e i suoi luogotenenti idearono una serie di attentati dinamitardi contro le sedi delle ambasciate algerine di Roma, Bonn, Parigi e Londra. Le azioni furono tutte rivendicate da un’organizzazione inesistente, i «Soldats de l’Opposition Algérienne», ma la cosa che più spiccò all’occhio fu che per confezionare l’ordigno deposto in Germania erano state utilizzate nove cartucce di esplosivo militare C4, prodotto negli Stati Uniti e in dotazione alle forze Nato.
Cile
Fino agli anni Novanta l’unica immagine nota di Yves Guillou era una vecchia istantanea in bianco e nero, peraltro ripresa di spalle. Il «grande vecchio» della strategia della tensione era un uomo senza volto e senza storia. Nessuno sapeva che fine avesse fatto: dopo la morte di Francisco Franco, nel novembre del 1975, si era probabilmente trasferito nel Cile di Pinochet, ponendosi al servizio di nuovi assassini e nuovi macellai. Dopodiché, era letteralmente scomparso nel nulla. Tra il 1999 e il 2010, nell’ambito delle indagini sulla strage di piazza della Loggia, la procura di Brescia produrrà sul suo conto due distinte rogatorie indirizzate alle autorità francesi e spagnole. Per tutta risposta, oltre a una recente fotografia in formato tessera dell’ormai anziano ex militare, i magistrati lombardi riceveranno un lungo elenco di presunti indirizzi di residenza sparsi tra le isole Canarie, Madrid, Siviglia e la Costa Azzurra – tutti immancabilmente deserti. «Se ne conclude – chiosa l’ultima relazione del Fiscalía Provincial di Madrid – che Yves Guillou si trova in luogo sconosciuto».
Com’è possibile che le istituzioni di due paesi europei, dietro precisa richiesta della magistratura italiana, non siano state in grado di individuare un cittadino residente sul proprio territorio è un’altra questione che resterà probabilmente insoluta. Ciò che sappiamo con certezza è che il 12 marzo scorso, su un sito internet francese, è comparso il seguente annuncio: «Siamo addolorati di informarvi della morte di Monsieur Yves Guillou, avvenuta a Le Revest-les-Eaux all’età di 95 anni». È da qui che siamo partiti.
Per raggiungere Le Revest-les-Eaux bisogna inerpicarsi lungo una strada tortuosa fatta di infiniti tornanti. Il villaggio sorge arroccato sul cucuzzolo di una collina, ai piedi di un’antica torre saracena del XIII secolo. Gli abitanti sono poco più di tremila, per la maggior parte molto anziani e molto benestanti. È in questo angolo di paradiso che il fondatore di «Aginter Press» si è spento con serenità in un tiepido giorno di fine inverno. Non è stato difficile, presentandosi agli impiegati comunali come vecchi amici di famiglia, scoprire che Yves Guillou ha avuto come ultima residenza la locale maison de retraite, una piccola casa di riposo dalla facciata bianca e piena di vetrate. Era malato di Alzheimer – ci hanno detto – e perciò parlava molto poco. «Il povero signor Yves è arrivato qui nel 2017 – racconta in un inglese strascicato la direttrice dell’istituto -. Di rapporti con la famiglia non ne aveva ormai da anni. Però gli restavano molti amici, ed era gente che gli doveva essere parecchio affezionata. Venivano a trovarlo praticamente ogni giorno, nonostante il fatto che avere un dialogo con lui fosse quasi impossibile. Era un tipo proprio speciale, il nostro signor Yves».
Quanto il «signor Yves» fosse effettivamente «speciale» la direttrice della maison de retraite non può nemmeno figurarselo. I misteriosi amici che venivano a chiacchierarci con tanta assiduità in barba all’Alzheimer, invece, è probabile che ne sapessero qualcosa in più. Dopo qualche insistenza, sempre giocando la carta dei vecchi legami famigliari, siamo riusciti a ottenere il contatto di uno di loro. Lo chiameremo Monsieur B., ha circa 65 anni e fa l’imprenditore in una cittadina della Côte d’Azur. La storia che ci ha raccontato è la seguente: lui e Yves Guillou si sono conosciuti circa un decennio fa a Villefranche-sur-Mer, una tranquilla stazione balneare alle porte di Nizza. All’epoca l’ex ufficiale divideva un appartamento con la propria compagna e Monsieur B. era suo vicino di casa. Nel 2016 la fiancée di Guillou morì all’improvviso e i figli di lei, che evidentemente non lo avevano mai avuto in simpatia, sbatterono il vecchio militare in mezzo a una strada. Così Monsieur B. accompagnò il suo anziano vicino a Le Revest-les-Eaux e lo aiutò a sistemarsi nella piccola casa di riposo in cima alla collina. «Lo andava a trovare spesso?», gli abbiamo chiesto. «Certo, tutte le settimane». «E si è mai fatto raccontare la storia della sua vita?» «Oh no, di quello il signor Guillou non parlava proprio mai – si è affrettato a rispondere Monsieur B. -. So che è stato militare in Corea e Algeria, e credo che abbia anche avuto dei problemi legali con le autorità francesi. Ma di cosa abbia fatto in seguito, diciamo tra il 1960 e il 2010, non ne ho la benché minima idea. È probabile che a Villefranche-sur-Mer fosse conservato qualche documento a riguardo, ma quando hanno sgomberato l’appartamento i figli della signora hanno gettato tutto nell’immondizia. Sapete: è gente che fa uso di droga…».
Non farsi trovare, in un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, è qualcosa di assai complicato. O forse basta avere gli amici giusti, specie se il tuo silenzio fa ormai più comodo agli altri che a te. Yves Guillou da Ploubezre, che ha trascorso una vita al servizio del potere, facendo assassinare innocenti e cercando di riportare indietro le lancette della storia, alla fine è riuscito nel suo intento. Oggi lo abbiamo trovato, ma quello che avrebbe potuto dire non lo dirà mai più.
Pubblicato 2 giorni faEdizione del 20 agosto 2022
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Ombre del Novecento . Sulle tracce di un uomo senza volto e senza storia, protagonista della destra internazionale

Domande personali per Enrico Di Cola – richiesta precisazione su punti intervista, verbali, veline e atti giudiziari

21 dicembre 2019

Partiamo dall’interrogatorio del 12 dicembre ore 23,55. Innanzitutto mi piacerebbe che rispondessi alle stesse domande che ti hanno fatto i carabinieri senza le omissioni che ovviamente hai fatto in sede di interrogatorio. E’ vero che hai subito minacce di morte, come racconti nell’intervista rilasciata a Crocenera anarchica nel 1972?

Certo che si, è verissimo. Il mio è stato in realtà un unico interrogatorio – iniziato il 12 sera e durato fino alla serata del 13 – da cui hanno tratto 3 verbali. Non ho potuto dormire, mangiare, andare in bagno e per ore mi hanno preso a schiaffi, tirato i capelli e i baffi. Tutto questo avveniva nel buio quasi totale tranne la luce della lampada che mi avevano puntato in faccia per cui non potevo prevedere quando e dove sarebbe arrivato il colpo. Questo trattamento mi è stato riservato perché volevano costringermi a mettere per scritto – oppure firmare un foglio in bianco – che Pietro era partito per Milano con una scatola per le scarpe piena di dinamite. Al mio rifiuto a “collaborare” hanno cercato di blandirmi, di comprarmi (dacci Pietro e noi ti faremo ricco e tu uscirai dall’inchiesta, altrimenti…). Questo trattamento si interruppe all’improvviso, quando un carabiniere entrò nella stanza e disse sottovoce qualcosa a quelli che mi stavano interrogando. A questo punto mi dissero che mi avrebbero rilasciato ma che dovevo stare attento perché – e qui le famose parole che dissi anche ai compagni di crocenera -, avrebbero potuto uccidermi in caserma e buttare il mio corpo da qualche altra parte e simulare un incidente stradale. Quando sono uscito dalla stazione dei carabinieri ero davvero terrorizzato, mi giravo in continuazione per vedere se mi seguivano e ho traversato le strade solamente sulle strisce pedonali e quando c’era anche qualche altro passante con me. Sarà stato puerile da parte mia reagire in quel modo, ma dopo le botte e le minacce di morte, ho capito che avrebbero davvero potuto mettere in atto le loro minacce e senza dover rendere conto a nessuno. Ero già stato fermato e denunciato diverse volte ed avevo già provato l’esperienza di interrogatori e del carcere (che certo non era una passeggiata), ma il trattamento subito in quella caserma era la prima volta che lo sperimentavo così come era la prima volta che mi sentivo completamente alla mercé di qualcosa al di fuori della mia volontà e del mio controllo.

Perché non hai detto della conferenza del Cobra? Poteva essere un alibi…

In realtà dico subito, nel primo verbale, che mi sono recato al circolo. Ometto solamente di dire per fare cosa. Più avanti nell’interrogatorio comunque aggiungo che c’era un tale che parlava di “nascita della Terra” ecc.  Non ritenevo in quel momento di dovermi difendere e quindi non ho pensato che potevo aver bisogno di un alibi. Faccio solo i nomi di Emilio e Amerigo (senza i cognomi) perché ho pensato che solo loro due sarebbero eventualmente potuti essermi utili come “alibi” nel caso di ulteriori domande. D’altronde avevo visto passare Amerigo Mattozzi per i corridoi della stazione dei carabinieri dove mi trovavo e ho pensato che anche lui avrebbe detto che eravamo stati assieme. I carabinieri non sembravano interessati a sapere chi fosse realmente presente alla riunione e tantomeno io ero interessato a dirglielo.

Le bombe a Roma sono scoppiate tra le 17.20 e le 17.30. Quando sei arrivato a piazza SS Apostoli erano le 18,30 quindi a piazza Venezia ci doveva essere stato l’inferno. Perché hai evitato di dire ciò che hai visto?

Non ho evitato di dire nulla! Può sembrare una barzelletta, ma l’unico commento che feci/facemmo con i compagni fu proprio “ammazza che nebbia stasera!”.  Dopo che alla LIDU ci dissero degli attentati, ripassando per piazza Venezia, cercammo di dare uno sguardo in lontananza, ma non vedemmo nulla di anomalo. Non ci avvicinammo perché eravamo più interessati a correre al locale per avvisare gli altri compagni di quello che era successo.

Le tue risposte ai carabinieri coincidono con quelle di Amerigo ed Emilio?

Certo che coincidono! Quello che abbiamo taciuto era il motivo per il quale ci eravamo recati alla LIDU, e anche questo è facilmente comprensibile: noi tre eravamo andati per denunciare le persecuzioni della polizia politica. Il 19 novembre eravamo stati fermati e trattenuti per molte ore in questura per impedirci di partecipare ad una manifestazione, ci fermavano e identificavano per strada, eravamo seguiti a piedi e con macchine, ecc. insomma eravamo stanchi di quelle continue angherie e persecuzioni. A causa degli attentati di quel giorno, assieme agli avvocati che lavoravano alla LIDU, ritenemmo che non fosse il momento giusto per sporgere quella denuncia.

A casa tua sono stati sequestrati manganelli di ferro e cartucce vuote. Di che si tratta? visto che poi negli interrogatori cambi più volte versione soprattutto per quanto riguarda i tondini di ferro… Perché hanno dato così tanta importanza ai ferri? Non cercavano l’esplosivo?

Le sbarre di ferro erano degli strumenti ginnici che avevo rubato a scuola (ora non ricordo se al Severi o alle scuole medie. Non volevo quindi farmi incriminare per furto! I bossoli (vuoti) erano della guerra 15-18 di mio nonno o di mio zio (generale di cavalleria) che quindi sono sempre stati in casa e che io avevo messo tra le mie cose. Fecero anche una perizia per vedere se erano stati svuotati della polvere da me, ma comunque nessuno dei miei familiari fu interrogato su questo punto.

Non ho idea perché abbiano dato tanta importanza ai ferri e perché abbiano voluto collocarli all’interno dell’università. Queste erano cose che dicevano loro, tra una sberla e l’altra, per cui alla fine anche io ho “ammesso” che venivano da li. In quel periodo avevo già ricevuto molte minacce da parte dei fascisti per cui avevo pensato bene di essere sempre pronto in caso di aggressioni. Non volevo ripetere l’esperienza dell’aggressione subita a Trastevere il 19 novembre quando venni accerchiato e malmenato!

Il quadernetto con l’elenco delle basi Nato in Italia che ti hanno sequestrato ad aprile, nella perquisizione del 12 dicembre già c’era? Non lo hanno trovato? Il generale Henke sostiene che, a parte qualche inesattezza, rivela veramente degli obiettivi sensibili (il contenuto, dice Henke, costituisce materia di vietata divulgazione). Anche un servizio segreto chiese informazioni su quel materiale. Di che si trattava? Chi l’aveva scritto? Il tuo avvocato tentò di rendere nulla la perquisizione. Fu in quella occasione che minacciarono tua madre? Lo stesso materiale fu ritrovato tempo prima nella casa di Luca Corso, un membro del collettivo anti nato F.G.C.I di Prato. Venne sottoposto a processo, ma con una sentenza del 22 dicembre 1970 fu prosciolto da ogni accusa per estinzione del reato per amnistia. Quindi anche quell’accusa per te doveva decadere. Restava quella di essere renitente alla leva…

Il quadernetto è sempre stato nel posto dove lo hanno trovato. Probabilmente nella prima perquisizione hanno dato solo un’occhiata superficiale e, forse a causa delle  poesiole che avevo scritto da bambino nelle prime pagine, lo avevano trascurato. In casa mia fu ritrovato anche l’originale (il bollettino FGCI di Prato) da cui avevo tratto i nomi delle basi. Inizialmente tentarono addirittura di vedere se fossi stati io a passare le notizie alla FGCI!!! Mentre Luca Corso a Prato veniva amnistiato, nel mio caso i giudici romani derubricarono sì l’ipotesi di reato dall’iniziale spionaggio al procacciamento di notizie di cui era vietata la divulgazione che comunque prevedeva una pena troppo alta per rientrare nell’amnistia. In altre parole il fatto che avessi scritto i nomi delle basi sul quaderno dimostrava che era mia intenzione divulgarli. Ovvio, no? Dopo molti anni questo reato cadde in prescrizione. Trattandosi di basi NATO intervennero i servizi segreti della marina Americana che chiesero maggiori informazioni su di me e anche sugli anarchici italiani (struttura, numero ecc)

Mia madre e soprattutto una mia zia furono insultate e poi minacciate di arresto quando si risentirono degli insulti e risposero, ma questo non avvenne in quell’occasione. Fui anche incriminato due volte (assieme al compagno Failla che era il direttore responsabile di Umanità Nova per aver pubblicato le mie lettere in cui denunciavo nella prima il trattamento subito durante l’interrogatorio e nell’altra sfidavo la magistratura a chiedere la mia estradizione. I processi vennero unificati e fu spostato tutto a Napoli (non ho la minima idea perché fosse finito li). Non ho letto i verbali riguardanti questa faccenda, so solo che ebbi una condanna a 18 mesi per aver diffamato i miei torturatori. Mia madre fu chiamata a testimoniare – così lei mi ha raccontato a distanza di tanti anni – e il giudice istruttore, una donna, le  fece capire che se confermava le accuse contro i poliziotti avrebbero condannato anche lei. Per cui mi trovai da solo contro tutti, la mia parola contro quella di esimi poliziotti.

Qui gli articoli pubblicati da Umanità Nova:

Umanità Nova 27 novembre 1971 L’imputato Enrico Di Cola spiega i motivi della sua latitanza e accusa per la strage l’apparato statale 

Umanità Nova 22 gennaio 1972 Lo Stato italiano accusato di strage.Enrico Di Cola dalla Svezia sfida la magistratura a chiedere la sua estradizione   

Nel verbale dell’interrogatorio del 13 dicembre, quello delle 11:10, parli del tuo arresto per rissa aggravata del 19 novembre insieme a Valpreda e Gargamelli per il quale siete trattenuti  in carcere una settimana. Cosa era successo? Fu un arresto pretestuoso?

Cosa successe di preciso non so dire. Certo è che venimmo accerchiati da un gran numero di persone che non avevano la minima intenzione di discutere con noi. Pietro provò a parlare con loro, ma mentre parlavano io fui investito da calci e pugni e svenni. Anche di questo episodio non ho mai letto i verbali e quindi non ricordo cosa dissi. Ricordo solo che gli agenti che ci arrestarono intervennero solo quando tutto era finito e che cercarono di farci confessare altre cose e che noi capimmo che c’era qualcosa di strano. La rissa era “aggravata” solo perché io e Roberto eravamo rimasti contusi. Fummo portati nel commissariato di Trastevere e poi subito – dopo poche ore – direttamente in carcere.

Quando hai visto Pietro Valpreda per l’ultima volta?

Credo fosse il 10 dicembre. Eravamo in macchina vicino via Veneto io, Pietro e Robertino Gargamelli. Parlammo a lungo e se non sbaglio fu in questa occasione che Pietro ci disse che dopo Milano doveva fare un lavoro in Sicilia e che, visto che a Roma non riusciva a trovare lavoro,  sarebbe probabilmente tornato a vivere a Milano.

Nel verbale delle 17:30 è interessante vedere come i carabinieri si interessino di come ti mantieni, chi ti dà i soldi per i continui spostamenti in Italia… Quasi che pensassero che ci fosse qualcuno di “esterno” che finanziasse il gruppo o comunque la vostra attività politica.

Figurati che per risparmiare le 100 lire dei biglietti io andavo spesso a scuola a piedi (da piazza Ragusa a Piazza dei Navigatori) o almeno arrivavo sino a San Giovanni e poi prendevo il bus.

Non credo si trattasse solo di trovare eventuali “finanziatori” ma piuttosto anche della loro mentalità. Essere uno studente medio, avere i capelli lunghi, viaggiare in autostop e vivere di quello che si trovava o raccattava per strada non era una cosa che a quei tempi questa gente riusciva a capire. Anche qui, le parole usate nel verbale, (‘’leggevo gli indirizzi su Umanità Nova’’…) non sono mie parole ma quello che gli investigatori mi hanno domandato e poi inserito nel verbale.

E a questo punto devo chiederti: chi vi ha dato i soldi per affittare i locali di via del Governo Vecchio?

Nulla di misterioso: usammo i soldi dateci per l’intervista a Ciao2001 come caparra e poi ognuno di noi si era impegnato a versare qualcosa in cassa…”a seconda delle proprie possibilità” . Il locale è bene ricordarlo visto che ancora oggi c’è chi specula su questo, fu trovato dal compagno Gigi che aveva visto il cartello mentre girava da quelle parti.

Gigi chi?

Luigi “Gigi” Andreotti. Un altro dei compagni che faceva la spola tra il Bakunin e noi

Sono poi andati a controllare a scuola, l’ITIS Severi, le tue, le vostre assenze…Praticamente non ci siete mai andati considerando anche le assenze per la reclusione a Regina Coeli e i giorni passati in caserma per gli interrogatori, lo sciopero della fame… Ci sono poi gli interrogatori fatti al preside, ad un professore e ad un tuo compagno di scuola. Il preside dice che eri sempre in prima fila in ogni manifestazione, ti davi da fare per organizzare scioperi. Lo studente Falcone racconta che tu eri in grado di confezionare una molotov e che ti ha sentito parlare di bombe. Chi è questo Falcone? E’ ovvio che la vostra attività politica non poteva prescindere dai luoghi scolastici. Quanto riscontro avevano le vostre idee tra i compagni?

Allora, con calma, ricordiamoci in che anno siamo. L’anno precedente avevo fatto lo stesso numero di assenze – molte di più visto che la scheda copre solo i primi mesi – ma mi presentavo sempre ai compiti in classe, alle interrogazioni e alle prove, per cui avendo le sufficienze avevano difficoltà a bocciarmi. Potrebbe aver influito il fatto che ero molto popolare tra i compagni di scuola per le lotte che portavamo avanti e che diversi professori simpatizzavano con noi. Tecnicamente avrebbero potuto bocciarmi per aver superato il numero di assenze consentito, ma visto che avevo le sufficienze nei compiti in classe e il supporto di professori e studenti, non lo fecero.

Falcone era un giovane fascista con cui dubito di aver mai parlato tranne una volta: quando lo feci entrare a scuola – nonostante lo sciopero ed il picchettaggio da noi attuato -, assieme ad altri 3-4 suoi amici. Quello che penso è che la polizia abbia in qualche modo provato a costruire qualcosa contro di me ed abbia utilizzato questi signori. Gli serviva un secondo attentatore per l’altare della patria ed hanno provato a mettermi in mezzo. Sapevano che durante la conferenza ero uscito, con Amerigo Mattozzi  per comprare del vino (nessuno avrebbe potuto dire con esattezza quanto tempo ero stato fuori), fecero anche indagini per sapere se ero andato alla riunione con la mia vespa, ma con loro scorno appresero dalla mia famiglia che mi era stata rubata durante la mia permanenza in carcere. Ecco allora la testimonianza di Falcone che dice di avermi visto a piazza Venezia da solo poco dopo l’esplosione delle due bombe all’Altare della Patria. Il terzo “testimone”, cioè il professor Ceri era un fascista che durante uno sciopero prese in ostaggio un nostro compagno, Enricone,  – minacciandolo con un’accetta – e questo davanti alla polizia che presidiava la scuola. Io con gli altri compagni sfondammo il cordone di polizia e dicemmo che se entro 10 minuti il nostro compagno non veniva liberato ci avremmo pensato noi a farlo e che la polizia si assumeva la responsabilità di quello che sarebbe potuto succedere. Credo fossi abbastanza odiato da questi figuri, anche dal preside che sfanculavo regolarmente davanti a tutti e che già durante le occupazioni aveva provveduto a dare i nomi degli occupanti alla polizia. Come anarchici eravamo il gruppo organizzato più forte della scuola. Senza il nostro appoggio nessuno era in grado di fare nulla. Molti dei compagni di scuola entreranno poi a far parte del gruppo 22 Marzo: oltre a me – tanto per citare qualche nome più noto – c’erano Gargameli, Fascetti, Borghese, Enricone, Amerigo, una decina in tutto.

Quando hai fatto perdere le tue tracce? c’è un giorno specifico?

Si, il 16 dicembre notte, dopo aver saputo dell’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli. Quando ho visto il titolo di un giornale di destra della sera con l’arresto di Pietro e la morte di Pinelli mi sono tornate immediatamente nella mente le parole che mi avevano detto i carabinieri prima di rilasciarmi: ti possiamo uccidere qui dentro, far trovare il tuo cadavere da qualche altra parte ecc. Allora ho capito che quelle minacce potevano davvero essere poste in opera e quindi decisi di dileguarmi in attesa di un eventuale processo.

Cosa hai detto alla tua famiglia?

Assolutamente nulla. Quando sono uscito di casa per andare nei locali del giornale Paese Sera per rilasciare un’intervista su Valpreda e il 22 Marzo non immaginavo che sarebbe stata l’ultima volta che vedevo la mia famiglia (e che avrei dovuto aspettare tre anni per rivederli).  Il 12 dicembre, dopo essere tornato a casa e aver visto il telegiornale, diedi a mio fratello il nome di alcuni avvocati (Lombardi e Calvi) dicendo che se succedeva qualcosa dovevano contattarli. Dopo le varie persecuzioni che avevamo subito ero quasi certo che sarebbero passati anche da me. Ero mentalmente preparato al fatto che sarebbero potuti venire a prendermi, anche se certamente non potevo immaginare che invece del solito controllo e interrogatorio la situazione sarebbe stata ben diversa.

Perché non ci sono stati più interrogatori? Perché ti hanno liberato invece di metterti in carcere come i tuoi compagni?

Io, e tutti i compagni interrogati dai carabinieri, siamo stati rilasciati. Perché non so dirtelo. Sappiamo che polizia e carabinieri si spartirono delle liste di nomi delle persone da fermare e probabilmente il mio nome finì nella lista sbagliata. Durante il processo di Catanzaro Luigi Falvella dell’Ufficio politico della questura di Roma disse: “non mi risulta se il Capitano Valentini (dei carabinieri, n.d.r.) mi comunicò che avevano fermato il Di Cola, perché in quei giorni nulla quasi risultava nei suoi confronti, è probabile che non gli abbia detto che ci interessava il suo fermo. Nei giorni successivi, essendosi aggravata la posizione del Di Cola, ne facemmo invano ricerche”. E allora perché i carabinieri mi fermarono? Da chi avevano avuto il mio nome?

Passiamo al rapporto della Questura di Firenze del 10 gennaio 1970. Viene interrogato l’anarchico individualista Luigi Rosati che sostiene di aver conosciuto Pinelli (è stato ospite nella sua casa), Valpreda e di essere stato con te (ti ha riconosciuto in una foto del quotidiano la Nazione), con Pietro e Annelise a Reggio Calabria per assistere al processo Aricò-Casile. Dice anche che Valpreda aveva un notevole ascendente sugli altri. Non solo. Afferma che negli ambienti che lui frequentava Valpreda era ritenuto alquanto capace di azioni violente come quella di Milano. Chi è Luigi Rosati? Lo conosci? E’ vero che Valpreda aveva questo ascendente su di voi? Le stesse opinioni su Pietro le riferisce anche Sergio Piccolo, interrogato il 2 gennaio che conferma come Rosati appena venuto a conoscenza della strage di Milano abbia subito pensato a Valpreda.

Vero è che Rosati lo incontrammo a Reggio Calabria. Delle cose da lui dette ne risponde lui e il suo amico ovviamente. Sono dell’opinione che gli siano state fatte dire quelle cose contro Pietro. Con loro avevamo solo rapporti di conoscenza per esserci incontrati un paio di volte in poco tempo, ma nulla più, non vedo quindi come avrebbe potuto conoscere il carattere di Valpreda e addirittura il suo ascendente su di noi! Può darsi che oggi io tenda a sminuire, ma tutto questo ascendente di Pietro su di noi io non lo ricordo. A meno che pensare le stesse cose e farle assieme non sia frutto di un lavaggio del cervello. Non ricordo una sola volta, una sola discussione, in cui Pietro abbia cercato di imporre il suo punto di vista. Discussioni si, anche accese se vuoi, ma mai imposizioni.

Probabilmente anche qui ci troviamo di fronte ad un ennesimo tentativo di costruirci un cappotto addosso. Non a caso è la questura di Firenze quella che seguirà la falsa pista del presunto furto di una macchina che Pietro e Claps avrebbero utilizzato per il trasporto degli esplosivi.

Voi dopo gli attentati di Roma e Milano avete pensato subito ai fascisti? O a qualcun altro?

Di nuovo posso parlare solo al singolare. Abbiamo avuto pochissime ore per discutere assieme di queste cose. Tra quelli fermati, quelli rilasciati e quelli “allontanatisi” per precauzione, non eravamo mai più di 3-4 a parlare assieme. Comunque sapevamo che sarebbe dovuto succedere qualcosa di grosso in quei giorni da parte dei fascisti e ambienti reazionari (la voce era quella di un tentativo di golpe). Va da se che pensavamo che servizi e fascisti fossero fratelli gemelli. I poliziotti erano per lo più di destra e i fascisti fraternizzavano ben volentieri con loro. Era spesso difficile capire dove iniziasse il fascista e dove finisse il poliziotto! La loro impunità voleva pur dire qualcosa.

Nel rapporto della Questura di Firenze ci sono anche le testimonianze di alcuni addetti alla stazione di servizio dell’Autostrada del Sole nei pressi di Firenze. Uno di questi dice di aver visto Valpreda che si è fermato con la sua 500 in uno dei giorni tra il 7 e il 14 gennaio. Riconosce anche Claps che si è fermato qualche giorno dopo la strage con una macchina straniera. Di te non c’è traccia.

Ti stanno cercando e il 17 gennaio la Questura di Vercelli manda un telegramma in cui avverte il ministero degli interni e la Criminalpol che tu sei stato a Vercelli e che poi ti sei spostato in treno a Casale Monferrato. Il 10 novembre un certo “Enrico” dice che sei nascosto a Milano e che Amedeo Bertolo e Umberto Del Grande ti stanno cercando i documenti falsi per andare in Gran Bretagna.

Mi racconti gli spostamenti di quei mesi? Chi ti ha veramente aiutato? Come vivevi?  Dove sei stato?

L’episodio della Questura di Firenze (Valpreda-Claps) è legato ad un tentativo fallito di provare che avevano rubato una macchina per trasportare dell’esplosivo. Per questo io non ci sono tra i sospetti. Questo è uno dei diversi “temi” (come il caso Lemke o “vetrini” ecc) che andrebbero studiati a parte.

Tutti i passaggi che le veline mi attribuiscono sono totalmente inventati. Come è noto ho passato quasi un anno in Calabria ed il resto a Roma e dintorni. L’ “Enrico” in questione era Enrico Rovelli , un anarchico che fin dai primi anni ’60 era al soldo dell’Ufficio Affari riservati con lo pseudonimo di Anna Bolena e i cui referenti erano a Milano la squadra 54 e a Roma il vice capo degli Affari Riservati Russomanno. Contemporaneamente Rovelli forniva i suoi servigi anche a Calabresi e all’ufficio politico della questura di Milano.

 Nelle veline in cui Rovelli sostiene che ero a Milano mente.  Amedeo e Umberto della Croce Nera Anarchica furono da me contattati per la prima volta oltre un anno dopo. Sono stato aiutato inizialmente da alcuni compagni del movimento studentesco che conoscevo da anni poi ho vissuto assieme a studenti fuori-sede, professori, artigiani, edili ma tutti questi mi conoscevano con altro nome e sotto altre storie. Ho evitato per oltre un anno di avere rapporti con anarchici. Sia perché era ovvio che era nel mio ambiente che venivo cercato sia perché avevo delle diffidenze verso i compagni della FAI a causa di quello che avevano  scritto a caldo su di noi. Le mie coperture erano del tipo che ero uno studente in depressione, oppure che avevo paura che mi cercassero per degli scontri di piazza a cui avevo partecipato ecc. ecc. Ogni volta che conoscevo qualcuno che poteva aiutarmi sparivo da dove ero stato fino a quel momento senza alcun preavviso. Cambiavo spesso anche per evitare di essere localizzato. Per sopravvivere, in cambio dell’ospitalità ho lavorato come precettore, come babysitter ecc. Avevo solo vestiti che i compagni dove vivevo pensavano di buttare (quindi di tutte le taglie e misure), un compagno mi aveva tagliato i capelli corti e inizialmente li avevo tinti di nero. Unica spesa – fatta dai compagni – fu di comprare un paio di occhiali molto grandi e con montatura scura per cambiare il più possibile il mio viso. In due anni gli unici soldi che ho visto sono stati un paio di centomila lire che mio fratello mi aveva inviato tramite una serie di compagni. Il mio rapporto con il mondo esterno ed i compagni veniva mantenuto soprattutto da Amerigo Mattozzi. Era l’unico di cui mi fidassi ciecamente e che ho seguitato ad incontrare durante la mia latitanza.

Facciamo un passo indietro. Dai rapporti fatti dal di dentro durante il Congresso di Carrara (31 agosto – 3 settembre 1969) è evidente che eravate attenzionati. Soprattutto Valpreda, ma anche il circolo Bakunin dove vengono registrate tutti i contatti con Cohn Bendit. Tu secondo il rapporto eri tra i contestatori di Failla insieme a Valpreda e a Bagnoli. Poi, finito il congresso, siete andati tutti insieme a Empoli al convegno dei Gia (Gruppi di iniziativa Anarchica). Mi puoi raccontare quei giorni?

Vorrei ricordare che Cohn Bendit si recò a Carrara nel ’68 mentre io, Pietro ed Emilio lo facciamo nel ’69. Si tratta di due episodi separati. Valpreda partecipò al Congresso di Carrara del 1968 assieme alla delegazione dei compagni milanesi. Nel ’68 Pietro non si era ancora spostato a Roma e quindi i contatti tra il Bakunin e Cohn-Bendit sono legati ai compagni della FAGI romana.

Noi ci recammo a Carrara per un convegno FAGI ed il nostro primo impatto non fu affatto felice. Ci trovammo in un salone dove vi erano una presidenza e degli oratori. Noi contestammo la staticità dell’assemblea e soprattutto chiedemmo che i locali della Federazione venissero tenuti aperti per noi che venivamo da fuori ed eravamo senza soldi. La situazione la risolvemmo occupando i locali e dormendo al loro interno. La mattina successiva riorganizzammo i locali disponendo le sedie in circolo ed eliminando il podio oratori. Ritenevamo che anche visivamente fosse importante rimarcare che eravamo tutti uguali. Sinceramente non ricordo contestazioni a Failla a meno che non fossero legate al rifiuto iniziale di farci dormire nel teatro degli animosi. Mi sembra scontato dire che attuare un atto del genere non sarebbe stato possibile se non fosse stato appoggiato dalla stragrande maggioranza dei compagni della FAGI e che anche molti compagni della FAI approvavano la nostra contestazione. All’epoca diversi di noi si sentivamo parte della FAGI anche se contestavano le posizioni dei compagni più anziani. Come è noto nel ’69 la FAGI minacciò la fuoriuscita dalla FAI se qualcosa nei loro rapporti non cambiava e se non gli veniva dato più spazio (e senza censure!) su Umanità Nova.

Il viaggio a Empoli era stato programmato per due ragioni: prima di tutto perché alcuni di noi si sentivano politicamente più vicini ai GIA (io ad esempio) e in secondo luogo perché Pietro voleva nuovamente parlare con Pinelli per chiarire la sua posizione, cosa che facemmo. Io ero presente alla conversazione tra Pinelli e Valpreda, mentre Emilio Bagnoli era poco distante a parlare con altri compagni.

Che posizione doveva chiarire Valpreda con Pinelli? E cosa si sono detti ?

Durante un interrogatorio in carcere a Paolo Braschi, comparivano alcune frasi – attribuite a Valpreda – circa la responsabilità di alcuni compagni in azioni dimostrative. Chiaramente Pinelli, in quanto responsabile della Crocenera, ne venne subito a conoscenza e sospettò Pietro di “parlare troppo” con la polizia. Noi sapevamo che la fonte di tali dichiarazioni non era Valpreda ma un giovane compagno di Milano, Aniello D’Errico, a cui erano state estorte quelle dichiarazioni. La nostra non era una supposizione, perché fu lo stesso D’Errico a raccontarcelo piangendo. Riferimmo queste cose a Pino Pinelli chiedendogli di sentire lui stesso Aniello per avere una conferma della cosa. Vorrei ricordare che già ad ottobre, quando dopo lo sciopero della fame a Roma mi recai a Milano con Gargamelli, Claps e Valpreda, vi era già stata una prima chiarificazione su queste voci. Per tagliare la testa al toro Pietro, approfittando della presenza al digiuno del nostro compagno Camiolo dell’avvocato di Paolo Braschi, gli chiese di prendere lui stesso in mano la sua difesa. L’avvocato gli disse che lui non poteva ma che un avvocato del suo studio lo avrebbe fatto. Quindi da ottobre i verbali di Pietro erano in possesso anche dell’avvocato di Braschi e tutta questa faccenda – su cosa veramente Valpreda avesse detto o non detto agli sbirri – sarebbe già dovuta essersi risolta. Perché poi a dicembre Pinelli seguitasse a dubitare di Pietro e scrivesse addirittura le famose lettere alla FAI e ai GIA è per me inspiegabile. D’altra parte, come mi ha raccontato Enrico Maltini, solo pochissimi giorni dopo la morte di Pinelli tutto era già stato chiarito e Valpreda totalmente “riabilitato”.

Gli inquirenti che ti stavano cercando hanno chiesto informazioni anche a Reggio Calabria per trovare prove a conferma della loro idea che furono i calabresi a fornire gli esplosivi. Non trovarono nulla. A parte che tu e Valpreda eravate stati a Reggio Calabria per il processo di Aricò e Casile. Mi puoi raccontare lo “strano” viaggio che faceste da Roma per la Calabria e gli “incontri sospetti” che faceste lungo la strada?

La “pista” calabrese era già stata indicata più volte in varie veline. A Nocera Inferiore i carabinieri ci fermarono mentre facevamo autostop. Eravamo su una macchina che fece una serie di strane manovre finché non attirò l’attenzione di una pattuglia di carabinieri che ci identificò e perquisì – grazie al famigerato art.41 – alla ricerca di armi ed esplosivi. Fummo poi costretti, seguiti dalla pattuglia ad andare alla stazione per prendere il treno e mettendo tutti i soldi assieme riuscimmo a comprare il biglietto per fare un paio di fermate. Quando uscimmo dalla stazione ci siamo accorti che la macchina che ci aveva dato il passaggio a Nocera, provocando la nostra perquisizione, era parcheggiata a fari spenti dietro ad un cartellone pubblicitario. La parte finale del nostro viaggio per Reggio Calabria la facemmo separandoci in due gruppi: io e la Muky e Pietro con Bagnoli. Il mattino successivo ci recammo davanti al tribunale per aspettare con gli altri compagni calabresi e di qualche altra località la sentenza contro Casile, Aricò (e qualche altro compagno). Durante questa nostra manifestazione di sostegno mi si avvicinò un poliziotto dell’ufficio politico di Reggio che indicò me, Pietro e Bagnoli come i tre venuti da Roma. Il giorno dopo partecipiamo con i compagni di Reggio ad una manifestazione di edili e qui – stando ad un loro documento inviato al G.I. Cudillo – furono i carabinieri ad immortalarci con varie foto che spediscono poi a Roma al giudice. Dire che eravamo  “attenzionati” mi sembra un eufemismo: ci seguivano passo a passo ed in stretta cooperazione tra polizia e carabinieri.

Sul Giornale d’Italia, noto giornale di destra, il 16 giugno 1970 esce una tua intervista. Tu sostieni che è falsa. La questura di Roma ritiene che tu l’abbia rilasciata a Cesare Tocci nei locali del gruppo teatrale Dioniso. Tra le risposte “inventate” c’è anche quella che parla di Andrea Politi… perché secondo te è uscita questa cosa?

La cosa è in qualche modo divertente. Il giornalista era il ragazzo (di allora) della sorella di Gargamelli. Forse voleva dare una mano, non ti so dire. Come ho detto io non ho mai rilasciato alcuna intervista durante la mia latitanza. E certamente non mi sarei sognato di darla ad un giornale di destra. Però, anche da queste cose apparentemente così strane e lontane si avverte una regia. Si sostiene che tale intervista sia avvenuta nei locali a Roma del Dioniso anche se loro avevano abbandonato quei locali già da un paio di anni. Il Dioniso, forse non casualmente, era il gruppo in cui lavorava Gino Liverani (arrestato perché si rifiutò di collaborare ad una campagna antianarchica contro di noi) e il Dioniso è il gruppo che contestò il Papa nel suo viaggio in Sardegna (diversi fermi). La polizia cercò di coinvolgere nella campagna repressiva contro gli anarchici anche il Dioniso. La cosa incredibile è che la questura romana, dopo indagini accurate come loro erano sono soliti fare, concluse che la presunta intervista (mai avvenuta) era stata fatta proprio nei locali del Dioniso!

La questione Politi “Andrea” esce comunque ad aprile se non sbaglio ed il primo a tirarla fuori sarà un nostro compagno Emilio Borghese che si era accorto che ogni volta che faceva quel nome, questo spariva dai verbali. L’articolo in se non è pessimo, però è un falso.

Dall’interrogatorio di Marco Ligini emerge che tu sospettavi già di Merlino. E’ così?

Si. Marco Ligini, un compagno della controinformazione, lo incontrai dopo un abboccamento che fece con alcuni compagni che mi ospitavano nei primissimi giorni dopo la strage e quando ero già ricercato seppur non ufficialmente. Marco si tutela dicendo di aver avuto confidenze su di me, ma in realtà lo incontrai personalmente. I compagni che mi ospitavano lo portarono a casa ed io, da dietro la porta chiusa e attraverso il buco della serratura seguii il suo racconto e una volta che giudicai che ci si poteva fidare, aprii la porta e parlai con lui direttamente.

Ligini testimonia, facendo il mio nome,  – cosa che ho scoperto solo recentemente – che io andai un paio di volte (con un altro compagno) a casa di Merlino per pianificare eventuali azioni dimostrative contro la sede FIAT di Roma. Dato che  la seconda volta ci trovammo di fronte ad un estraneo e la situazione era molto strana, io e l’altro compagno decidemmo di non frequentare più Merlino (a quel punto considerato da noi un provocatore). Si tratta della testimonianza numero 5 del libro Strage di Stato, sebbene nel testo pubblicato ci siano diverse cose che non corrispondono a quanto da me detto. A novembre, quando io, Pietro Valpreda e Gargamelli usciamo dal carcere di Regina Coeli (arrestati con l’accusa di rissa aggravata il 19 novembre sera) i compagni ci dicono che durante la nostra detenzione vi era stato un attentato alla caserma dei carabinieri a piazza del Popolo e che un nostro compagno, Angelo Fascetti, era stato interrogato dalla questura come sospetto. Angelo ci raccontò che gli erano state contestate frasi precise pronunciate all’interno del circolo. A quel punto divenne  evidente che, oltre a Merlino, c’era un’altra spia al nostro interno, come anche scrisse alla fine di novembre Pietro al suo avvocato di Milano. Con alcuni compagni della mia scuola, che conoscevo da qualche anno e di cui mi fidavo ciecamente, ci riunimmo e cominciammo a vagliare le varie ipotesi sull’identità della possibile spia. Arrivammo ad una rosa finale di tre nomi: Merlino, il poliziotto “Andrea Politi” (Salvatore Ippolito) e un terzo compagno. Non parlammo con nessuno di questa nostra indagine per evitare un clima di sospetto generalizzato e soprattutto per non accusare delle persone innocenti. Purtroppo non avemmo il tempo di terminare il nostro lavoro. E forse – col senno del poi – sbagliammo a non raccontare agli altri compagni del circolo dei nostri sospetti.

Il ruolo di Merlino. Che idea ti sei fatto del suo coinvolgimento nel processo per le bombe di Roma? Perché non hanno fatto in modo che ne venisse fuori?

Non sono sicuro di capire bene la tua domanda. Ma te ne faccio io una mia: un alibi dato da fascisti a un loro camerata è credibile? Merlino poteva, aveva il tempo di piazzare le bombe assieme ai suoi amici?

Detto questo vorrei farti osservare che Merlino ad un certo momento (probabilmente dopo aver passato tutte le informazioni utili su di noi – ed aver inutilmente cercato di provocare qualche fatto, azione concreta per intrappolarci -, sparisce, trova delle scuse per non frequentare  più il nostro gruppo. Dopo circa un mese alcuni di noi decisero di andare a casa sua a vedere come stava (prima aveva giustificato l’assenza dicendo che doveva prepararsi ad un esame e poi che era malato) e lo trovarono in perfetta salute. Per questo motivo fu “costretto” a frequentarci nuovamente – sia pur saltuariamente – ed è  per questa ragione, secondo me, che da teste a carico contro di noi, diventerà invece anche lui un imputato. Insomma finito il lavoro sporco di informatore su di noi si era sganciato ma poi la nostro visita lo aveva obbligato a tornare a frequentarci. Il piano iniziale presumibilmente era quello di allontanarsi in modo di poter essere un teste contro di noi (avevo capito cosa volevano fare per cui….), la nostra visita lo riporta invece nel gruppo e a quel punto neanche lui ha più scampo e viene arrestato.

Perché il 25 dicembre 1971 hai dato il benservito all’avvocato Bucciante?

Non ricordo chi mi suggerì di nominare Bucciante quale avvocato difensore. Bucciante era un principe del foro, uomo di destra, ed ex ufficiale dei carabinieri. L’ho incontrato due o tre volte in tutto (una all’interno dell’ospedale militare del Celio, una in Sicilia ed una nella sua lussuosissima villa) e fin dal primo incontro capii che non era l’avvocato che volevo. Lui voleva che accusassi i miei compagni per potermela cavare. Siccome non ho mai aspirato al lavoro di giuda, e di infame che accusa innocenti per essere assolto, decisi di revocargli il mandato. Ora faccio un passo indietro. Dopo le rivelazioni sulla spia della polizia – causata da una lettera inviata da Emilio Borghese a Amerigo Mattozzi – ci fu una nuova raffica di perquisizioni alla ricerca di lettere e contatti tra di noi e furono incriminati altri tre compagni per associazione a delinquere: Giovanni Ferraro, Claudio Gallo e Angelo Fascetti. In istruttoria però vennero prosciolti. A quel punto non vi erano più avvocati della sinistra extraparlamentare nel nostro collegio di difesa. Aldo Rossi mi chiese quindi di nominare io questi avvocati, per bilanciare quelli del PCI che aveva Valpreda, cosa che io feci immediatamente nominando Di Giovanni e Spazzali. Dopo di me fu il turno di Bagnoli, che nel frattempo era uscito dal carcere di nominarne altri.

Dalla Svezia mandi una lettera aperta in cui spieghi le ragioni della latitanza, chiedi l’apertura immediata del vostro processo e sfidi la magistratura italiana a chiedere la tua estradizione. Anche Amnesty ed un gruppo di intellettuali in Italia si muovono in questa direzione. Quale era l’obiettivo?

Andando in Svezia avevo scelto di dare battaglia per ottenere subito un processo che in Italia non si voleva fare. Era un accordo che avevo preso con crocenera e con la FAI. Volevamo provocare l’Italia a chiedere la mia estradizione e quindi fare in una Corte estera quello che non si riusciva a fare in Italia. Per estradarmi l’Italia doveva inviare alla Svezia una richiesta che spiegasse i motivi dei miei mandati di cattura e quindi pensavamo di fare li il controprocesso per dimostrare la nostra innocenza e smerdare la polizia italiana a livello europeo. Nessuno di noi poteva prevedere che ci saremmo trovati improvvisamente in un vuoto legislativo. Dopo la pubblicazione della mia lettera di sfida alle autorità italiane a chiedere la mia estradizione, successe che iniziò il primo processo a Roma che venne però subito fermato ed inviato a Milano per “competenza territoriale”. Milano a sua volta declinò l’invito e spedì tutto a Catanzaro. Agli atti ho trovato una richiesta di estradizione di Occorsio (che non aveva però più giurisdizione) che invitava i giudici di Milano a procedere loro con quella richiesta. Come sappiamo il prefetto di Milano si rifiutò di tenere il processo a Milano per questioni di “ordine pubblico” e tutto venne spedito a Catanzaro. Quindi immagino che tale richiesta sia sparita nei meandri e nei mesi di attesa per trovare un tribunale competente. Catanzaro cercò di scantonare dicendo che non era attrezzato per un tale processo, ma la Cassazione lo obbligò a farlo.

Quando sei tornato in Italia?

Sono tornato per la prima volta, clandestinamente, alla vigilia della sentenza intorno al 1980, dove ad una manifestazione nazionale per il 12 Dicembre a Roma casualmente incontrai Valpreda, Gargamelli ed altri del gruppo. Ma poi tornai a Stoccolma per terminare il  mio lavoro e cercare di chiudere tutte le cose lasciate in sospeso. Sono tornato nei primi anni ’80, sempre clandestinamente perché ero ancora ricercato ma dopo qualche tempo sono nuovamente andato a vivere all’estero.

Con la prima sentenza caddero i primi due mandati di cattura, quello per associazione a delinquere, e quello per “spionaggio” ma nel frattempo ne avevo collezionato un altro: quello per renitenza alla leva militare.

Quale è stata l’accoglienza da parte dei compagni?

Frequentai per qualche tempo i compagni del Malatesta e con alcuni di loro andai ad un convegno a Carrara. Fu una bella rimpatriata. Poi mi dissero che la polizia stava facendo controlli e mi invitarono a non frequentare più il gruppo per non essere compromessi (ero renitente alla leva) che poi mi avrebbero contattato loro quando la  situazione si fosse calmata. Sono ancora in attesa di un loro segno di vita. Dei compagni del mio gruppo avevo quasi totalmente perso ogni traccia. Ho impiegato anni per ritrovarli. Non ho frequentato nessuno per molti anni essendo tornato a vivere all’estero. Avevo sempre pendente sulla testa il reato di renitenza alla leva che si è estinto soltanto al compimento del 55esimo anno e che mi impediva di avere una vita normale tra i miei compagni. Vivo ancora all’estero.

Domande personali per Enrico Di Cola (al di là dei verbali, delle veline e degli atti giudiziari)

8 dicembre 2019

Qualche anno fa, con l’ausilio di una nostra amica giornalista, pensammo di scrivere un libro sulla storia del gruppo 22 Marzo, il gruppo anarchico su cui più si è scritto in questi 50 anni ma al contempo, di cui nessuno aveva sentito l’esigenza di ascoltare i protagonisti di quella esperienza. Per vari motivi anche il nostro tentativo di scrittura collettiva fallì. Recentemente mi è capitata sotto gli occhi l’intervista che mi era stata fatta e ho deciso di pubblicarla. E’ un’intervista molto personale, è la mia storia.    

Che cosa significa per te essere anarchico?

Per me essere anarchico significa aver compiuto una scelta di vita. Non credo si possa essere anarchici solo a livello culturale o ideologico. E’ come vivo e mi relaziono con le altre persone, il mio modo di prendere delle decisioni che fa di me un anarchico o meno. E’ il mio sentire le ingiustizie fatte agli altri esseri (umani, animali o vegetali) come se fossero fatte contro me stesso. E’ il sentire un odio viscerale contro le ingiustizie e sopraffazioni. E’ il non riuscire ad essere testimone passivo delle iniquità della società che mi circonda. E’ il vedere in ogni forma di potere, di gerarchia, di burocrazia un nemico da combattere e abbattere. E’ il tendere alla liberazione totale delle persone sia dalla schiavitù del lavoro salariato, che dai vincoli della famiglia intesa in maniera tradizionale, che dal giogo che viene imposto dalle religioni o dallo Stato. Per questo aspiro alla distruzione di ogni forma di istituzione chiusa, come i carcere, i manicomi (possono chiamarli in altri modi oggi ma sono e rimangono istituzioni aberranti e dannose). E’ il tentare di immaginare e applicare le idee anarchiche nella mia vita quotidiana. E’ l’adozione del metodo del consenso orizzontale, autogestito, senza delega. L’anarchia per me è l’ordine senza il potere, la realizzazione di una società autoregolata dove bisogni e i diritti di tutti siano rispettati. Non mi vergogno di dire che credo anche nell’Utopia, intendendo con questa parola la lotta continua che deve tendere al miglioramento delle relazioni umane e della società.

Come ti sei avvicinato all’anarchia? 

Fin da ragazzo sono stato un “ribelle”. Combattevo contro il grigiore e l’oscurantismo che permeava la società in quegli anni in tutti i gangli della vita: Chiesa, Patria, Scuola, e Famiglia.

Ho quindi iniziato contestando l’educazione remissiva che ci veniva imposto dalla religione, gli stereotipi e falsità dei valori tradizionali della famiglia, la lotta contro ogni forma di autoritarismo e soprattutto contro i metodi di insegnamento anacronistici nella scuola. Il mio impatto con la scuola – fin dalle prime classi delle scuole elementari – fu, per usare un eufemismo, a dir poco negativo.

Pochi oggi lo ricordano ma ai miei tempi era ancora consentito alle maestre di comminare punizioni corporali: se parlavi o ti muovevi durante l’ora della ricreazione ti veniva sequestrato il cibo, per un non nulla si finiva in ginocchio per ore, oppure – più di frequente – venivamo puniti con bacchettate sulle palme e il dorso delle mani, ci venivano tirate di orecchie e usati mille altri modi di punizione che servivano per piegarti e, soprattutto, umiliarti di fronte a tutti. L’unico modo che avevo per ribellarmi era quello di rompere le regole, di cercare di sfuggire al controllo. Nei miei primi 5 anni delle scuole elementari sarò espulso “da tutte le scuole del regno” – come ancora recitava il codice scolastico –  per ben tre volte, costringendo mia madre ad inviarmi in istituti privati per non dovermi far interrompere gli studi e quindi perdere l’anno scolastico.

Intorno ai 13 o 14 anni, alle scuole medie (anche qui con numerose sospensioni da scuola e consequenziali bocciature) iniziai a ribellarmi in modo più organizzato e collettivo contro quel mondo assurdo e violento. Facevo, con altri compagni di scuola, piccoli sabotaggi (incatenamento dei cancelli, colla “saldante” nella toppe delle chiavi del portone della scuola…) solo per sentirmi ancora vivo e poter avere l’ultima parola. Non tardai molto a fare, organizzare, il mio primo sciopero: riuscito!), per chiedere di avere i cessi puliti (uso la parola che meglio descrive le condizione dei bagni) e per una maggiore libertà di parola e opinione nei confronti dei professori.

Per molti della mia generazione fortunatamente  –  sia pure come echi “da lontano” – giunsero dei richiami irresistibili a cui aderire: arriva la stagione dei “figli dei fiori”, degli Hippies, dei Provos, dell’antimilitarismo, dell’odio per le armi e tutte le guerre…

Per i più giovani è forse difficile capire fino in fondo la cappa che copriva tutti gli aspetti della vita e della società di quegli anni. Portare i capelli leggermente più lunghi della norma significava rischiare di essere derisi, insultati e perfino picchiati per strada. Stesso trattamento ci fu riservato quando iniziammo a portare le camicie a fiori, le collanine colorate, gli anelli e i braccialetti.

Se non si andava in chiesa si veniva messi all’indice dalla comunità del proprio quartiere, a scuola vigeva un ordine quasi militare e non si poteva mettere in discussione nulla di ciò che veniva detto dai professori. Per non parlare della rigida separazione dei sessi nelle scuole.

La mia presa di coscienza politica inizia nel 66/67 quando il mio miglior amico e compagno di scuola, Severino (figlio di un operaio edile comunista, e lui stesso simpatizzante della FGCI ), mi chiese di accompagnarlo ad una manifestazione per il Vietnam. Sono con lui quasi alla testa del corteo quando la celere, senza provocazioni o preavviso alcuno, carica lo spezzone in cui mi trovavo con una tale violenza cieca che mi lascerà per sempre segnato. E’ allora che inizio a leggere dei libri e i giornali per cercare di capire.

Poi arriva il vento del ’68 e mi trovo subito politicamente coinvolto e partecipe di quell’ondata di rivolte e lotte, in quel meraviglioso tentativo di rottura delle catene della società capitalista contro cui, prima di allora, mi ero battuto a livello individuale. E’ così che scopro per la prima volta di non essere solo, che i miei sogni erano anche gli stessi di tanti ragazzi della mia età.

Il ‘68 fu essenzialmente un movimento liberatorio e libertario e poiché mi era capitato di leggere tra quei miei primi libri politici gli scritti di Bakunin – per la prima volta avevo trovato qualcuno che spiegava le stesse cose che io fino a quel momento avevo solo rozzamente pensato – non potei fare a meno di definirmi anarchico.

Nel 1969 avevo iniziato a fare politica già da alcuni anni. Mi consideravo anarchico, seppur non legato a nessun gruppo, e in quella logica ho agito, prima come “cane sciolto” all’interno di alcune associazioni culturali (la prima fu all’interno di una sezione del Pci vicino piazza Asti, la “Paolo Rossi” ) e del nascente movimento studentesco.

All’epoca, nel 67-68, ero uno studente medio che frequentava l’istituto tecnico industriale “Francesco Severi” di via Casal de Merode, vicino Piazza dei Navigatori (zona EUR). Il Severi” era un istituto tecnico molto distante da dove abitavo, ma era l’unico che mi aveva accettato. Quasi da subito (era l’aria del ’68) si formarono dei gruppi di compagni più politicizzati che presero contatto tra di loro. Uno era composto da giovani della FGCI e l’altro da compagni più di sinistra, di movimento, tra cui un nutrito gruppo di anarchici (molti dei quali ruoteranno attorno al 22 Marzo quando si costituirà). Ricordo che la prima cosa che facemmo fu una inchiesta sul ceto sociale di provenienza (sul numero dei “ripetenti”, sulla distanza dalla scuola) degli studenti che ci fece scoprire che eravamo una specie di scuola “cestino di rifiuti” composta prevalentemente da studenti provenienti da famiglie operaie, di pluri-bocciati (ripetenti), una scuola che raccoglieva ragazzi (c’erano anche tre ragazze: era una vera novità in una scuola tecnica dell’epoca) provenienti dai quartieri più disagiati e disparati della città arrivando a lambire anche Ostia, Acilia e dintorni.

Se non ricordo male fummo anche uno dei primi istituti tecnici romani a praticare l’occupazione della scuola, seguendo l’esempio di alcuni licei. Durante l’occupazione avvennero le prime schedature: la polizia passava per la scuola accompagnata dal preside e schedava chi si trovava all’interno dell’edificio.

Durante un picchettaggio effettuato davanti alla scuola (per andare a confluire, dopo un passaggio davanti ad altri licei ed istituti della zona per raccogliere i manifestanti,) ad una manifestazione cittadina del MS, il Preside fece intervenire la polizia che ci sgombrò da davanti il cancello e dal marciapiede di fronte la scuola (occupazione di suolo pubblico).

Poco distante dal cancello della nostra scuola vi erano anche, sulla sinistra l’ingresso di una succursale del Liceo artistico e, sulla destra ma poco più giù, il cancello di un’istituto tecnico professionale . Vedendo che gli accessi a queste scuole erano aperti e non presidiati dalla polizia decidemmo – alcuni di noi più ardimentosi e spericolati – di “provocare” la polizia ribadendo al contempo i nostri diritti; quindi – a due a due – iniziammo a traversare la strada e camminare su e giù davanti a questi cancelli gridando slogan.

Alla polizia non piacque questa nostra bravata, e uno alla volta fummo fermati e portati via, a sirene spiegate, al commissariato di zona più vicino: quello di Garbatella. Qui venimmo identificati, interrogati e minacciati. Contro di me venne compilato un verbale in cui venivo incriminato per “adunata sediziosa”, interruzione di pubblico servizio, propaganda sovversiva (avevo al collo un fazzoletto rosso!) ed altre dabbenaggini del genere.

Durante il nostro fermo, ci fu un passaparola e compagni della FGCI e PCI di zona – assieme a compagni del MS e della scuola si portarono davanti al commissariato per esprimerci solidarietà e chiedere il nostro rilascio. Credo, ma non ricordo bene, che intervenne anche il segretario della sezione del PC della Garbatella, per chiedere la nostra liberazione, ed in effetti venimmo liberati dopo alcune ore. Non so cosa avvenne di quelle denunce (probabilmente amnistiate), ma credo che non mi venne mai notificato nulla (presto passerò alla latitanza e quindi all’esilio per cui non posso sapere con certezza queste cose).

Voglio ricordare un’altro episodio che avvenne poco prima del fatidico 12 dicembre 1969. Altro picchettaggio e polizia a presidiare la scuola. Durante una vivace discussione tra noi del picchetto ed un professore fascistoide (diversi professori, più giovani, invece simpatizzavano con noi e ci sostenevano negli scioperi e nelle occupazioni) costui estrae improvvisamente dall’automobile un’accetta, afferra un compagno del picchetto per la gola (“Enricone”) e lo minaccia di morte. Tutto questo avviene davanti gli occhi esterrefatti  – i nostri – e imperturbabili  – quelli della polizia -, che anziché disarmarlo ed arrestarlo aprono un varco per farlo entrare nella scuola con l’ostaggio!

Di fronte a questo allucinante episodio, avvisammo l’agente di grado superiore che comandava i poliziotti che se il compagno non veniva rilasciato immediatamente – gli demmo 10 minuti di tempo – saremmo entrati con la forza e lo avremmo liberato noi stessi. Al passare dei 10 minuti (nel frattempo avevamo provveduto ad armarci di bastoni) sfondammo lo schieramento di polizia e ci precipitammo verso lo scalone della scuola. Proprio in quel momento uscì il Preside con alcuni professori ed il nostro compagno che era stato preso in precedenza in ostaggio. Ci venne detto che il professore responsabile di quell’ignobile episodio era fuggito passando per uno degli ingressi posteriori. A distanza di tanto tempo non ricordo bene se occupammo nuovamente la scuola, mentre altri di noi si diressero verso il concentramento che era stato convocato, per manifestare per le vie di Roma.

Quello che successe dopo non lo so bene, perché quando questo episodio venne “rivangato” da non so bene da quale magistrato, io ero già latitante da tempo e quindi non potei prestare testimonianza.

In quegli anni, sia perché eravamo “tecnici” ma soprattutto grazie al fatto che eravamo stati i primi ad occupare, eravamo molto richiesti per fare i picchettaggi nei licei della zona, dove i compagni erano più timorosi nel mostrarsi apertamente oppure dove i fascisti erano più forti. Eravamo conosciutissimi da tutti (e quindi anche dalla polizia naturalmente) i compagni del movimento studentesco romano, ed in special modo da quelli della zona Eur-Garbatella con cui ci incontravamo regolarmente. Da tempo, assieme a compagni del movimento universitario della zona, avevamo creato un coordinamento e svolgevamo continue – ed estenuanti come si usava allora – assemblee presso un circolo culturale a San Saba (vicino alla Piramide).

Il discorso della lotta di “liberazione”, all’epoca, si era già spostato oltre le mura della scuola (cioè andando oltre le rivendicazioni settoriali: dequalificazione, scuole fatiscenti e non attrezzate ecc.) per allargarsi all’orizzonte della società tutta, ma anche – ed in quegli anni non poteva essere diversamente – in quelli della prospettiva del cambiamento radicale della società stessa. Ovvero la prospettiva di un cambiamento rivoluzionario.

Ricordo un intervento politico in solidarietà con le lavoratrici della Standa della Garbatella che erano entrate in agitazione per rivendicare contratti salariali e orai più decenti. Ci presentammo alla Standa in gruppetti di due o tre (eravamo una dozzina circa), ci recammo al piano inferiore dove si trovava il supermercato e – ad un segnale convenuto – iniziammo la nostra azione di protesta. Ogni gruppo “armato” di carrello, passeggiava per il supermercato gridando slogan tipo; “come sono i salari” si urlava da una parte, e dall’altro lato si rispondeva urlando “bassi!”, ed altre cose di questo tipo, e nel mentre si girava riempivamo i carrelli di merce. Il tutto si svolgeva sotto gli occhi divertiti e solidali del personale della Standa e di molte massaie, e lo sconcerto e preoccupazione degli agenti privati che ci seguivano in questa processione senza sapere cosa fare. Dopo una mezz’oretta di questo intervento politico (il tempo che avevamo calcolata fosse necessario alla polizia prima di essere chiamata e poter intervenire), ci recammo alle casse con i nostri carrelli stracolmi di merci per acquistare…un lecca-lecca o una gomma americana (il diritto di ogni acquirente quando arriva alla cassa di avere un ripensamento).

Mentre risaliamo la scala mobile per uscire però troviamo la brutta sorpresa della polizia già pronta a riceverci (all’epoca non c’era tanto traffico come oggi evidentemente). Ai compagni che si trovavano sui primi gradini della scala mobile non rimase altra soluzione che tentare una “carica” contro i poliziotti per cercare di sfondare l’accerchiamento – cosa che in parte riuscì – e che permise a noi che ci trovavamo alle loro spalle di fuggire in tutte le direzioni, aiutati dalle commesse che ci indicavano le direzioni giuste per raggiungere le uscite. Almeno quattro di noi saranno fermati e portati al commissariato di Garbatella. Ennesimo passaparola, qualche telefonata, solito raggruppamento davanti al commissariato per chiedere il rilascio dei fermati, che dopo qualche ora vengono rilasciati.

Il coordinamento di zona faceva, naturalmente, parte del coordinamento cittadino del MS romano. I temi ormai all’ordine del giorno della nostra attività erano molteplici e toccavano vari aspetti della vita e della politica Volantinaggi e manifestazione con i pendolari vicino a via di Castro Pretorio (dietro la stazione Termini), dove partivano gli autobus per molte destinazioni delle periferie romane e per i Castelli. Gli autobus erano vecchissimi, i biglietti cari, e gli orari pessimi.

Contro la “società dei consumi”, pochi giorni prima di Natale, organizzammo un “serpentone rosso” nelle vie “nobili” di via Fratina e via Condotti. Si dovevano raggiungere queste strade a gruppi piccoli e in ordine sparso e attendere per una certa “ora x”. Arrivata “l’ora x” dovevamo portarci nel centro della strada, srotolare un lunghissimo telo rosso e poi iniziare la nostra manifestazione. Credo che ci presentammo in oltre un centinaio di compagni, provocando un vero “terrore” tra le tante signore bene, impellicciate e piene di pacchi regalo dai prezzi esorbitanti. Qualcuno aveva anche portato dei “tric trac” che vennero lanciati ed esplodevano mentre passava il serpentone rosso. Poi ci dileguammo. Non credo che nessuno venne fermato in questa occasione.

Altro terreno di intervento era quello tra/con i baraccati. Chi non ha vissuto quegli anni avrà sicuramente difficoltà a capire il dramma sociale che vivevano decine e decine di migliaia di persone (soprattutto del Sud ma non solo) costrette a vivere in queste gigantesche baraccopoli che circondavano o si inserivano in varie zone della città. Il tema della casa e del doposcuola per i ragazzi che vivevano in queste realtà era un tema che non potevamo – come sinistra – non affrontare e su cui si intervenne in modo serio e continuato.

In tutto il 68 e il 69 (fino al 12 dicembre ovviamente) ho partecipato a centinaia di assemblee, coordinamenti di zona, cittadini, sia degli studenti medi che quelli universitari, nonché a un numero ragguardevole di picchettaggi, manifestazioni e volantinaggi. Non è affatto strano ciò: come anarchico per me era naturale che il personale ed il politico fossero un tutt’uno. La partecipazione, l’essere presente dove si facevano e decidevano le cose, era per me fondamentale. Non era un peso, ma il mio modo di essere e vivere, un modo per realizzare la voglia di cambiamento che si respirava nell’aria e sentivo nel mio cuore.

Forse oggi è difficile capire fino in fondo cosa per molti di noi volesse dire essere militanti a tempo pieno, le rinunce ed i sacrifici che si facevano (ma che tali allora non ci parevano), per l’ideale e per la rivoluzione …(che ai nostri occhi di diciottenni sembrava così facile da raggiungere e prossima a venire)

Con diversi altri compagni di scuola fin dal ’68 avevamo formato un gruppo, una comunità di compagni anarchici nella scuola. Eravamo il gruppo più forte e influente della scuola e non c’era sciopero o azione che non fosse concordata con noi. Eravamo un gruppo di compagni di scuola ed amici ma non eravamo un gruppo organizzato nel senso tradizionale della parola. Quando aprì le sue porte il “Bakunin” , inevitabilmente fummo contenti ed attratti dalla prospettiva di incontrare altre realtà anarchiche della nostra città. Alcuni di questi miei compagni di scuola – che poi parteciperanno alla nascita del circolo 22 marzo – hanno nomi più noti del mio: Roberto Gargamelli, Emilio Borghese, Angelino Fascetti, Amerigo Mattozzi…solo per citarne alcuni.

Come è nato il 22 marzo?

Per parlare del 22 marzo è necessario fare un passo indietro e parlare del Circolo Bakunin.

Ho ancora vivo in me il ricordo della manifestazione per il primo maggio del 1969. Vi erano vari concentramenti della sinistra extraparlamentare e del movimento studentesco in diverse parti della città che poi dovevano convergere in uno spezzone che, unitariamente, doveva fare il suo ingresso a piazza San Giovanni dove vi era il concentramento dei sindacati e del Pci. Io, “Enricone”, e Gargamelli, non ricordo se ci fosse qualcun altro con noi, ci recammo al concentramento di piazza dei Re di Roma che si trovava a pochi minuti da dove allora abitavamo. Ricordo la nostra meraviglia e la gioia nel vedere alcune bandiere ed uno striscione degli anarchici: era la prima volta da tantissimi anni che gli anarchici romani uscivano in maniera ufficiale ed organizzata ad una manifestazione per il primo maggio. Nella piazza vi erano migliaia di compagni e altri se ne aggiunsero poi all’arrivo degli altri spezzoni di dimostranti dalle altre zone della città. La nostra gioia fu interrotta all’arrivo del corteo a San Giovanni dove i mazzieri del servizio d’ordine del pci e sindacato tentarono di impedire il nostro ingresso nella piazza. Inizialmente riuscimmo a sfondare il cordone degli energumeni sindacali ma poi questi chiesero l’intervento della celere in loro difesa che prontamente intervenne caricando. Dopo un primo breve scontro, fummo respinti nella direzione di Santa Maria Ausiliatrice e da qui decidemmo di proseguire in corteo fino a San Lorenzo dove, lì giunti, ci sciogliemmo per evitare ulteriori provocazioni poliziesche. Alla manifestazione conobbi diversi compagni che poi formeranno il circolo “Bakunin” (non avevano ancora una sede).

Qualche tempo dopo leggiamo su Umanità Nova che era stato aperto il Circolo anarchico “M. Bakunin”. E’ il primo circolo anarchico a nascere a Roma, prima di questo non vi era nessun punto di aggregazione per gli anarchici (in realtà vi era il Cafiero, ma noi non lo sapevamo). Con i miei compagni di scuola iniziamo a frequentare questo gruppo.

Al “Bakunin” incontriamo Valpreda, Roberto Mander, Ivo Della Savia, Claudio Gallo, Bianca, Giovanna, Cosimo “Mino” Caramia, Gigi, Giovanni Ferraro, Roberto “Cristus” Giuliani, Umberto Macoratti e tanti altri ancora. Qui conoscemmo anche altri due personaggi che diventeranno tristemente famosi: il fascista Mario Merlino ed il poliziotto Salvatore Ippolito conosciuto col nome di Andrea.

In questi primi mesi di attività ci sentiamo, e siamo, parte attiva del Bakunin. Partecipiamo alla manifestazione del 13 settembre davanti il carcere di Regina Coeli per protestare contro gli arresti dei compagni anarchici incriminati per gli attentati del 25 aprile. Il 25 settembre io con Pietro Valpreda e Leonardo Claps (Steve) iniziamo uno sciopero della fame sulle scalinate di Piazza Cavour del Palazzo di Giustizia, finita la quale ci recammo – noi tre e Gargamelli a Milano per portare la nostra solidarietà al compagno Michele Camiolo che stava portando avanti lo sciopero della fame da diverse settimane. Ad ottobre si verificano due fatti: la nostra intervista a Ciao 2001 e il famoso episodio del volantino (lo firmammo come Gruppo B. Durruti) che i compagni del Bakunin ci contestarono per il contenuto e a cui strapparono la frase “ciclostilato in proprio via Baccina 35”.  Fu questo episodio di censura – che ci indignò – a funse da detonatore nei nostri rapporti con i “vecchi” del Bakunin e che, piano piano, ci portò alla decisione di formare un gruppo nostro e lasciare il Bakunin.

Va però detto che i rapporti con i compagni del Bakunin non si ruppero affatto con la nostra uscita. Il 27 ottobre io, Muky, Bagnoli e Valpreda siamo a Reggio Calabria per solidarizzare con i compagni Angelo Casile e Gianni Aricò che dovevano essere processati assieme ad altri due compagni. Al nostri ritorno a Roma consegniamo un breve resoconto del processo ai compagni del Bakunin che sarà poi pubblicato su Umanità Nova – il 15 novembre – a firma il gruppo 22 marzo di Roma.

Fu durante gli otto giorni di sciopero della fame – di sofferenza e vita condivisa – che si creò una forte solidarietà ed amicizia con molti compagni che ci frequentavano e sostenevano in quella nostra protesta. Da quel momento mi è difficile parlare di me al singolare, perché mi sentivo già parte di un gruppo e ogni mia azione era basata sulla condivisione.

Partecipiamo assieme a varie manifestazioni, facciamo quella che noi chiamavamo una “azione esemplare” (e che secondo i giudici può essere un atto di teppismo o terrorismo): assieme a delle famiglie di sfrattati costruimmo, di notte, un muretto davanti alla porta dell’ufficio dell’immobiliare del Vaticano che li aveva sfrattati e riempimmo le scale di scritte.

Con Valpreda, Claps e Gargamelli mi recai a Milano (nessuno di noi aveva soldi e quindi si viaggiava solo in autostop) per portare la nostra solidarietà al compagno Michele Camiolo che era in sciopero della fame da quasi un mese, sempre per chiedere la liberazione dei compagni arrestati con l’accusa di aver messo le bombe fasciste del 25 aprile e sui treni. Con Valpreda, Bagnoli e Mucky andammo a Reggio Calabria per portare la nostra solidarietà ai compagni Angelo Casile e Gianni Aricò che dovevano essere processati. Di lì ci recammo a Pisa subito dopo assassinio dello studente Cesare Pardini, e allacciammo rapporti con un gruppo che, se non ricordo male, si chiamava Il Potere Operaio pisano.

Da Pisa con Valpreda e Bagnoli ci rechiamo al convegno della FAI-FAGI a Carrara e quindi a quello dei GIA ad Empoli… Ci incontriamo, fraternizziamo, discutiamo e prendiamo contatti con centinaia di compagni “di strada” con cui vogliamo portare avanti il nostro percorso politico e di lotta. In questo periodo intenso finisco anche in galera per la prima volta: si tratta della famosa rissa a Trastevere (19 novembre), che in realtà altro non fu che un’aggressione organizzata contro di noi, in cui una ventina di fascistelli ci assalì di sorpresa davanti a dei poliziotti in borghese che intervennero solo dopo che gli aggressori si erano dileguati. Valpreda e Gargamelli stavano cercando di farmi rinvenire con l’acqua fresca di una fontanella (aggredito da quatto o cinque teppistelli fui colpito da un calcio ai testicoli e svenni) quando i poliziotti decisero di intervenire… per arrestarci.

Vi eravate accorti degli infiltrati fasci-guardie? 

Siamo stati etichettati come decerebrati e questa nomea ci ha accompagnati sino ad oggi. Stranamente tale domanda non viene mai rivolta ai compagni di Milano che tra di loro avevano un personaggio come Enrico Rovelli (Anna Bolena) che è stato colui che hai indicato la pista Valpreda-Pinelli e che ha potuto continuare fino al 1974 a fare opera di provocazione e delazione. Per non parlare di personaggi perlomeno ambigui come Sottosanti o Bertoli!

Che dovremmo poi dire del PCdI, che si intratteneva e riceveva finanziamenti di un certo signor Ventura, oppure delle decine di spie in Lotta Continua o nel PCI… Certo, noi siamo stati colpiti e duramente, ma questo non basta di certo per renderci più “ingenui” degli altri gruppi della sinistra.

Non voglio fuggire alla tua domanda ma ci tengo a precisare che la mia risposta sarà individuale (almeno in parte) più che collettiva. Ci eravamo accorti di essere stati infiltrati? Ma certo che si. Lo prova la nota lettera inviata da Pietro Valpreda al suo avvocato nel novembre del ’69 in cui gli dice chiaramente che c’è una spia tra di noi. Stranamente tale lettera, pur se pubblicata fin da subito dopo la strage e nel libro Strage di Stato, non viene poi rammentata quando ci pongono tale domanda. E’ uno dei “fatti” dimenticati. Quando ad ottobre io Pietro e Robertino (Gargamelli) siamo arrestati per rissa e portati al carcere di Regina Coeli, viene fermato un nostro giovane compagno – Angelino Fascetti – perché sospettato per un attentato alla caserma dei carabinieri. A lui vengono contestate delle frasi “precise” dette all’interno del nostro circolo: era quindi ovvio che vi era una spia tra di noi oppure che vi fossero dei microfoni (anche se all’epoca in realtà non erano molto comuni). Io e alcuni compagni di cui più mi fidavo, ci siamo incontrati e abbiamo stilato un elenco di 4 nomi delle persone che ritenevamo potessero essere degli infami: due di questi nomi erano proprio quelli di  Merlino e “Andrea”.  Di questi nostri sospetti non ne parlammo con gli altri compagni del gruppo, perché non volevamo gettare accuse contro delle persone senza avere prove. Pensavamo fosse – prima di tutto – necessario indagare con discrezione, senza mettere inutilmente in allarme i sospettati. Non abbiamo però avuto il tempo materiale per poterlo fare.

 “Andrea” – la guardia di PS Salvatore Ippolito – a me non era mai piaciuta e non credo di avergli mai rivolto la parola o essere andato oltre il “ciao” di cortesia. Non capivo cosa facesse assieme a noi e mi disgustava il suo modo rozzo e pesante di “corteggiare” le compagne.

Di Merlino inizialmente mi ero fidato anche se trovato strano il suo linguaggio ma pensavo fosse dovuto al suo “passato” di fascista e che doveva ancora liberarsi da quelle scorie ideologiche. Oggi però, visto che stiamo scrivendo la nostra storia, credo sia ora di aggiungere qualche particolare in più per far capire perché io lo sospettassi, avessi la certezza, che fosse un infiltrato e provocatore.

Nel libro Strage di Stato vi sono riportate alcune testimonianze anonime. Una di queste è la seguente: Testimonianza n. 5 “Merlino una volta invitò me e altri due anarchici del circolo Bakunin in casa sua per discutere “alcune cose molto riservate”. Non ricordo con esattezza il periodo ma credo che fossero gli ultimi giorni di settembre o i primi di ottobre. Quando arrivammo da lui lo trovammo assieme a un suo amico, un certo Roberto, che si presentò come un ex camerata convertitosi all’anarchia. Disse che aveva un’edicola di giornale all’EUR. Dopo un breve preambolo Merlino ci propose la costituzione di un commando terroristico, dicendo che una persona a lui molto vicina era in possesso di materiale informativo sulla fabbricazione di ordigni esplosivi. Il suo amico aggiunse che egli era in grado di procurarsi del “materiale”.

Merlino ci invitò a casa sua due volte. La prima volta ci propose una azione di sabotaggio alla Fiat di viale Manzoni, organizzata in questo modo: alcune auto avrebbero bloccato le vie adiacenti per ostacolare l’arrivo della polizia, mentre gli altri compagni sarebbero penetrati all’interno e dopo aver tagliato con dei coltelli i tubi dei distributori avrebbero appiccato il fuoco alla benzina fuoriuscita. Così – ci disse – sarebbe saltato tutto in aria. La volta successiva ci propose di assaltare una caserma situata nei pressi di casa sua, della quale diceva di avere una pianta dettagliata, per portare via armi e munizioni. In quella occasione era presente alla riunione un altro suo amico, che noi non conoscevamo, il quale disse di essere in possesso delle piante di vari tralicci della televisione che si potevano far saltare. Aggiunse che se le era procurate quando lavorava come disegnatore, presso l’ingegnere che aveva realizzato il traliccio Tv di Viareggio. Noi, comunque. lasciammo cadere queste proposte perché contrarie al nostro concetto di “azione esemplare”. (mia NOTA: su questa testimonianza vedi anche interrogatorio di Marco Ligini, da notare che Marco dice di averla avuta da altra persona e non da me, come in effetti avvenne. Forse perché ero già ricercato quando mi incontravo con lui.  )

Questa testimonianza, seppur non corretta in tutti i dettagli nel libro, è sicuramente una di quelle che diedi io ai compagni della controinformazione. E’ una testimonianza che prova che Merlino ebbe non solo un ruolo di spia al nostro interno (verso Delle Chiaie e non si sa bene chi altri) ma anche il  ruolo di provocatore (mancato). Io e l’altro compagno che venne con me (non altri due, quindi) ci insospettimmo – sia perché ai nostri incontri trovammo uno sconosciuto, sia perché ci proponeva di fare delle cose che a noi non piacevano o interessavano – e quindi decidemmo di rompere ogni tipo di rapporto con Merlino. Quello di cui mi pento oggi, è di non aver mai parlato con gli altri compagni di questi incontri. Ma allora mi sembrava ovvio non farlo: non volevo compromettere nessun compagno in quella storia.

Poi magari si tornerà su questo punto, sul punto Merlino, ma vorrei sottolineare che da quel momento Merlino sparì dal circolo, non si fece più vedere o sentire. Probabilmente aveva terminato il suo lavoro come provocatore fallito e spia e quindi aveva ritenuto utile “distanziarsi” da noi adducendo a pretesto, prima che doveva prepararsi per degli esami, e poi che era influenzato. Come si sa, anche dagli atti, ad un certo momento alcuni compagni decisero di passare per casa sua a vedere come stava e trovandolo in perfetta salute lo invitarono a tornare al circolo, cosa che lui fu costretto a fare. Credo che sia questa la ragione per cui Merlino da “testimone” contro di noi sia poi inevitabilmente diventato anche imputato. Se non fosse stato “costretto” a tornare a frequentarci (molto saltuariamente per la verità) avrebbe potuto cavarsela accusandoci e dicendo che lui aveva capito la nostra pericolosità per tempo e per questo si era distaccato da noi.

Quello che ti posso dire è che sapevamo con certezza che eravamo controllati e seguiti passo passo. Solo la stupidità di un poliziotto o magistrato potevano arrivare a credere  che in una situazione del genere, in cui ci si sospettava a vicenda, si potessero tranquillamente programmare attentati.

Come è cambiata la tua vita dopo il 12 dicembre 1969?

Dopo due interminabili anni di latitanza in giro per l’Italia, riuscii a fuggire in Svezia dove ottenni l’asilo politico (credo di essere stato il primo e unico cittadino italiano ad ottenere tale status di rifugiato e il passaporto Nansen – rilasciato delle Nazioni Unite – in quanto apolide.).

In Svezia ho dovuto ricominciare tutto da capo. La polizia e la magistratura italiana impedirono a mia madre persino di inviarmi i certificati scolastici, per cui dovetti prima imparare la lingua e poi tornare sui banchi di scuola svedesi e ricominciare da capo (elementari, medie, liceo…). A mia madre, vedova, venne addirittura negato il passaporto per venirmi a trovare, finché non compii i 21 anni (la maggiore età all’epoca) perché altrimenti avrebbe lasciato in Italia un figlio minore (cioè io, che ero già all’estero)! Ho così impiegato anni …per tornare al punto di partenza!

Comunque non mi lamento, anzi mi sento fortunato perché almeno ho evitato – a differenza dei miei fratelli e compagni – l’orrore di passare tre anni in galera senza sapere se la nostra innocenza sarebbe mai stata riconosciuta e i cancelli di ferro si sarebbero mai riaperti davanti a noi.

Ho fatto tante cose e ho vissuto tante esperienze che mi hanno formato. Ma certamente non posso dire che ho fatto quello che desideravo, quello che sognavo di fare a 18 anni!  E, certo, rimane il peso degli interminabili anni di esilio, la rottura da un giorno all’altro, di tutti i miei rapporti con la famiglia, con gli amici, con la ragazza… del dopo 12 dicembre io parlo come della mia seconda vita, di un’altra vita.

In Svezia non ho smesso un sol giorno di continuare a lottare per i miei ideali e per la liberazione dei compagni incarcerati. Ho creato gruppi anarchici (tra cui l’AKO), e contribuito a rimettere in piedi la Federazione Anarchica Svedese (AFIS), ho lavorato nel Comitato Internazionale del sindacato libertario SAC, ho creato la Crocenera anarchica svedese, lavorato per sindacalizzare i detenuti affinché potessero far sentire le loro voci e rivendicazioni, sono stato tra i promotori dell’associazione di amicizia con l’AIT per la Scandinavia (la SAC ne era fuoriuscita), creato il Comitato Pinelli con anarchici e sindacalisti, ho mantenuto i rapporti con l’IFA…. questo e tanto altro ancora. Però, inevitabilmente data la mia esperienza personale, ho sempre privilegiato il lavoro di solidarietà internazionale con i compagni incarcerati in ogni angolo del mondo.

Questa è stata la mia vita politica. Sul lato umano e personale l’esperienza della persecuzione per il 12 dicembre e la lunga latitanza mi ha modificato fortemente. Ma di questo, ancora oggi, preferisco non parlarne, perché sono cose che attengono la mia vita più intima e privata.

E dal punto di vista ideologico cosa è cambiato?

Non so bene a cosa alludi con questa domanda. Se al mio punto di vista politico di oggi o alla situazione generale. Siccome non stiamo scrivendo la mia storia personale mi limito a dire che oggi a livello ideologico, per me, nulla è cambiato. Mi sento anarchico esattamente come lo ero quasi cinquanta anni fa. Forse ti farà sorridere, ma credo di essere rimasto in qualche modo “ibernato” al modello anarchico di quegli anni. Ho difficoltà ad inserirmi e capire fino a fondo gli anarchici di oggi, ma anche con gli anarchici della mia generazione. Non riesco a capire tante litigiosità, tante forme burocratiche che credevo definitivamente superate. Mi sembra che oggi si tenda troppo ad “uniformare” piuttosto che riconoscere la ricchezza delle differenze al nostro interno. Vedo poco rispetto reciproco, e soprattutto poca propensione allo stare all’interno dei processi sociali in atto in questa società in disintegrazione. Si parla troppo e si agisce troppo poco. Bada che questa non è solo una critica ma anche un’autocritica. Non mi spingo oltre perché è mio costume di una vita di dire cose che poi sono disponibile in prima persona a fare. Oggi sono troppo vecchio e malandato per permettermi il lusso di proporre cose, di fare azioni che credo necessarie. E’ un mio limite.

Che conseguenze ha avuto l’inchiesta sulle bombe di Roma e Milano sulla tua vita?

Credo di averti già risposto su questo punto con le cose che ho già detto. Ma sono disponibile a ulteriori precisazioni se o ritieni necessario.

Ti riconosci in quello che la produzione libraria degli ultimi quarantaquattro anni ha raccontato su di voi?

Su questo punto sarò telegrafico: no! Anche il libro migliore scritto su di noi non fa altro che interpretarci in base a verbali, atti della magistratura o veline dei vari servizi segreti. Nessuno fino ad oggi si era ancora preso il disturbo si sentire la nostra opinione. Vorrei sottolineare che neppure da parte di autori anarchici – Le bombe dei padroni di CroceNera, Noi accusiamo di Vincenzo Nardella e il più recente Bombe e segreti di Luciano Lanza – si è sentita questa necessità di sentire i testimoni diretti dei fatti. Certamente è vero che i primi due libri sono stati scritti “a caldo”, ma comunque vi erano almeno una decina di nostri compagni in libertà che potevano essere facilmente sentiti, mentre meno giustificato è il libro di Lanza che poteva fare un lavoro più accurato senza problema alcuno visto tutti erano in libertà e facilmente contattabili.

Rifaresti tutto quello che hai fatto?

Quando posso ricominciare? Certo che si! Non mi pento di nessuna delle scelte fatte allora e rifarei esattamente tutto da capo. Errori compresi. Credo negli stessi valori di allora, nelle stesse cose, e sogno ancora che un mondo migliore sia non solo possibile ma anche necessario. Perché non dovrei voler ripercorrere gli stessi sentieri? Mi sentivo nel giusto allora, come mi sento ancora oggi di esserlo stato. Non posso certo tornare indietro nel tempo, ma posso certamente continuare – e mi sforzo di farlo – sulla stessa strada di allora, anche se appesantito dagli anni, dagli acciacchi ma anche arricchito da un bagaglio di conoscenze e esperienze che spero mi aiutino a non smarrire la strada.

C’è qualche rimpianto?

E’ naturale e umano rimpiangere gli anni della propria giovinezza. Nel mio caso rimpiango il fatto che il mio circolo non abbia avuto il tempo di maturare e crescere, perché sono certo che molte differenze con gli altri compagni anarchici di Roma sarebbero state risolte in modo positivo, e perché – ancora oggi – credo che la nostra esperienza politica avesse delle possibilità di svilupparsi positivamente. Ma, soprattutto, non vorrei aver sofferto la rottura improvvisa e lacerante, provocata dalla mia latitanza, con quei compagni che non solo rappresentavano tutto il mio mondo di allora ma che mi erano anche cari, come fratelli.

Quello che più mi manca oggi è di non poter riassaporare il clima di quegli anni sino in fondo. In qualche modo il mio mondo si è fermato il 12 dicembre e tutto è rimasto congelato a quel momento. Ma in realtà ti sto dando dei miei “desiderata” più che dei rimpianti. Serenamente posso dire di non avere rimpianti. La mia vita, dopo il 12 dicembre, è cambiata radicalmente ho passato anni di sofferenza estrema e di solitudine, ma poi – come è normale nella vita – è proseguita in maniera felice e piena. Non credo che vivendo in Italia avrei mai potuto conoscere e vivere tanti luoghi ed esperienze di vita come quelle che ho vissuto nella clandestinità prima e fuggendo all’estero poi. Sono una persona totalmente diversa da quella di allora ma non posso certo rimpiangere la vita di un Enrico – come sarebbe potuto essere – che mi è sconosciuta e che non ho mai vissuto. Non posso sapere se sarebbe stata meglio o peggio, ma solo che sarebbe stata differente. Non ho mai rimpianti su quello che non è stato.

2019 11 24 Gli anarchici, il 22 Marzo e il 12 dicembre 1969 – di Enrico Di Cola (parte terza)

24 novembre 2019

Nella seconda parte di questo lavoro, abbiamo messo in risalto come quando si fanno circolare voci contro dei compagni ci vuole del tempo perché esse possano essere rettificate. Ma anche una volta che si rettifica, che si ammette l’errore, le voci non finiranno mai di girare ed infettare le menti anche di compagni sinceri ed onesti. Nell’aprile 1970 il movimento anarchico aveva ancora problemi su quale linea unitaria seguire e al suo interno, soprattutto nella FAI, sussistevano molti dei pregiudizi verso il 22 Marzo.

Quello che più colpisce, almeno dal nostro punto di vista, è non tanto quello che si diceva, ma quello che si continuava a voler tenere nascosto: a 5 mesi dalla strage non era ancora stato scritto un rigo, un accenno, al fatto che tra i compagni arrestati vi fosse anche un compagno del Bakunin, Roberto Mander. Non solo scaricarono il 22 Marzo ma addirittura uno del loro stesso gruppo! Neanche di lui osarono prendere le difese. Come abbiamo già ricordato – nonostante la sua giovane età – Mander non era un “passante” nel Bakunin, se era stato già messo da tempo al corrente delle voci – almeno da ottobre – che circolavano su Valpreda (e che lui diligentemente riportava a compagni di altre realtà anarchiche) e che riceveva informazioni dallo stesso Pinelli. Persino quando la FAI inizierà a difenderci in modo più unitario questo semplice dato di fatto sarà sempre ignorato, occultato. Un altro compagno sacrificato sull’altare dell’ipocrisia.

Balza agli occhi, leggendo la seguente lettera/circolare interna, anche un altro dato abbastanza preoccupante: l’arroganza della FAI romana di voler ergersi a giudice di chi potesse dichiararsi anarchico o meno addirittura quando si trattava di un gruppo anarchico autonomo che nulla aveva a che fare con loro!

Trattandosi di un documento abbastanza lungo e importante, riteniamo sia necessario pubblicarlo integralmente (vedi: 1970 04 documento FAI /FAGI di Roma firmato da Anna Pietroni e Bruno Riccardi).

In questo documento si parla di due lettere: una del 2 aprile del Gruppo C. Berneri di Bologna e l’altra, della stessa data, del compagno Alfonso Fantazzini, appartenente allo stesso circolo. Entrambi chiedono un incontro per dirimere “ogni eventuale equivoco ed accordarsi, possibilmente, su una linea unitaria da seguire”.

Nel suo documento in risposta a queste due lettere la FAI romana sostiene al primo punto di non aver “mai creduto alla colpevolezza di Valpreda e compagni”. Facciamo finta di credergli anche se dovrebbero spiegarci perché allora su Umanità Nova a dicembre avevano scritto quelle parole di fuoco. Il secondo punto, con tutte le sue molte suddivisioni, è quello che più ci interessa perché mette a fuoco – anche per le sue contraddizioni – quale era veramente la questione in discussione nel movimento anarchico. Analizziamola con attenzione.

Punto secondo – “La nostra valutazione e conseguente presa di posizione nei riguardi del sedicente “gruppo anarchico” (ultima edizione) (tutt’altro che “tardiva”, come da qualche parte si è voluto affermare), non poteva esplicarsi, prima degli imprevisti attentati, che nell’ambito strettamente locale in cui si muoveva detto gruppo’’’ ……

Non avendo noi a disposizione le due lettere dei bolognesi non siamo in grado di capire da chi fossero partite le richieste di chiarimento, se da parte del gruppo Berneri o da parte di Fantazzini. È però chiaro che qualcuno in ambito FAI avrebbe voluto che noi fossimo marchiati a fuoco addirittura da prima del 12 dicembre! E da Roma rispondono – con candore – qualificandoci come gruppo “sedicente” anarchico, e precisano di averci comunque calunniati in ambito … “strettamente locale”. Ricordiamolo: stiamo parlando di voci che circolavano su Valpreda. Sebbene si trattasse di voci ancora tutte da verificare, la FAI romana provvedeva fin da subito a diffamare pubblicamente non solo Valpreda, ma l’intero gruppo 22 Marzo!!  Ma andiamo avanti

Punto 2 b – “Non era la prima volta che, soprattutto nell’ambito dell’Università e del Movimento Studentesco in genere, elementi provocatori si muovevano sconsideratamente sotto l’egida del “gruppo 22 Marzo” con azioni “autonome” che potevamo considerare dannose, provocatorie, ma non delittuose e non vediamo perché né come avremmo potuto o dovuto pubblicamente sconfessare o denunciare all’opinione pubblica il “22 Marzo” o “gli iconoclasti” (che sembrava si fossero associati al 22 marzo) senza venir meno al rispetto dell’autonomia ideologica e tattica dei gruppi.”…. Ci limitammo, quindi, ad estromettere il gruppo dal nostro circolo, dalle nostre riunioni, dalle nostre attività…e informare di ciò e dei nostri dubbi sulla natura poco chiara del “22 Marzo” quei compagni e quei gruppi che ritenevamo potessero essere da essi avvicinati.

Questo paragrafo è un vero capolavoro di equilibrismo, doppiogiochismo e cazzate. La perla nera, la ciliegina sulla torta è racchiusa nella frase “senza venir meno al rispetto dell’autonomia ideologica e tattica dei gruppi”. Se davvero il circolo Bakunin rispettava la “autonomia ideologica e tattica” del nostro gruppo, allora ci dovrebbero spiegare perché saremmo stati “sedicenti anarchici”. O eravamo un gruppo anarchico o non lo eravamo. Ma soprattutto perché mai la FAI romana si poteva arrogare il diritto di decidere se quello che facevamo all’interno e assieme al Movimento studentesco, cioè le azioni “autonome” (ma autonome da chi? Dalla FAI che non era neanche presente e di cui noi non facevamo neanche parte?) potessero qualificarsi come sconsiderate, dannose e provocatorie. Anche qui si denota una totale incomprensione del movimento allora in atto. Le azioni che abbiamo fatto dentro il movimento degli studenti erano infatti concordate con gli elementi più avanzati del movimento studentesco stesso. Le azioni venivano sempre fatte quando il corteo si era già sciolto proprio per non coinvolgere nessun innocente in quello che facevamo. Qui i vecchi del Bakunin si ergono addirittura a giudici di cosa pensasse e facesse il movimento studentesco romano!

E sempre nel rispetto della nostra autonomia…veniamo estromessi da ogni attività, persino pubblica, del Bakunin. Sempre sotto questo segno di rispetto per l’autonomia del nostro gruppo veniamo messi all’indice ed infangati da un circolo di cui non facciamo parte!

 Punto 2 c – La vera natura di “gruppo eterogeneo” (cioè aperto a provocatori, spie e fascisti) del gruppo “22 marzo” ci fu chiara solo verso la metà di novembre….

Di questa questione ci siamo occupati più volte, non vale quindi la pena di tornarci sopra.  Rimane comunque il fatto che il Bakunin ritenesse che un gruppo eterogeneo (e lo siamo stati fin dall’inizio) volesse necessariamente dire un gruppo aperto a provocatori, spie e fascisti. Potremmo tranquillamente pubblicare centinaia di veline dei vari servizi (AARR, SID, questure) per dimostrare che praticamente senza eccezioni tutti i gruppi, FAI e GAF in primis, erano altrettanto infiltrati di noi, se giudichiamo dalla quantità e qualità di notizie interne che queste spie producevano.

Punto 2 d – “I contrasti tra di noi e il “22 marzo” e la nostra difficile ma decisa opera chiarificatrice e di denuncia della subdola natura del gruppo, era a conoscenza, oltreché degli ambienti politici di Roma, soprattutto extraparlamentari, anche della questura…. Per cui quando l’immediata speculazione reazionaria degli attentati fece di tutto per coinvolgere il Movimento Anarchico…. decidemmo di pubblicare (U.N. n 44, dicembre 1969 2 pagina) la nota DICHIARAZIONE…. specificavamo molto chiaramente….sulla assoluta mancanza di ogni possibile collusione tra il cosiddetto “Gruppo 22 marzo” ed elementi specificatamente anarchici…..”

In questo paragrafo si torna a parlare di “natura subdola” del gruppo, di delazione fatta contro di noi con la sinistra extraparlamentare, si giustifica il tono ed il contenuto della loro dichiarazione di scomunica, e si arriva a parlare di assoluta mancanza di “collusione” tra noi ed elementi anarchici. Quindi nuovamente si sostiene che non ci ritenevano degni di essere qualificati come tali. Il contorsionismo dialettico continua. Se qualcuno si è distratto, va ricordato che quanto finora riportato viene dallo scritto di un gruppo anarchico e non da quello di un partito stalinista, con tutte le sue scomuniche e richiami ad una presunta purezza ideologica!!

Punto 2 e – “Ci teniamo a precisare che ogni individuo attualmente detenuto del gruppo 22 marzo, come singolo, può essere almeno potenzialmente, ritenuto da noi (eccezion fatta per Merlino) fino a prova contraria, ottimo e degno compagno (anche Valpreda che conoscevamo solo da circa 2 anni come SIMPATIZZANTE anarchico e come tale ci era stato presentato da noti compagni di Milano) ma, irremovibile, rimane il nostro giudizio di ferma quanto giusta e giustificata ripulsa politica del “Gruppo 22 marzo”  di cui rigettammo e rigettiamo la presunta ideologia, gli scopi, le attività e soprattutto l’estrema, quasi incredibile “fragilità” che ne ha fatto,……l’innocente quanto incosciente capro espiatorio…..”

Ci verrebbe da dire troppa grazia signora mia!  Quindi “potenzialmente” potevamo essere considerati compagni ma era tutto da verificare, Valpreda era solo un simpatizzante, e ovviamente provocavamo “ripulsa” come gruppo, così come viene rigettata la nostra “presunta ideologia”.

Quindi, ad aprile, dopo più di 4 mesi dalla strage di piazza Fontana, i nostri compagni più vicini, almeno geograficamente, così ci descrivono. E badate bene, il paradosso è questo, non per attaccarci, ma per …difenderci! Se si difendono i compagni con parole come quelle scritte in questo documento è facile immaginare cosa pensassero e scrivessero di noi i compagni di realtà più remote. Il pregio di questo scritto del Bakunin di Roma è quello di rendere noto e palese un dato di fatto: che, a parte dei gruppi anarchici milanesi e pochi altri, il Movimento anarchico ha impiegato molti preziosi mesi per trovare una linea politica unitaria e che per molti preziosi mesi i compagni incarcerati sono stati più o meno lasciati in stato di abbandono. I contenuti di questa lettera rivelano, chiariscono senza ombra di dubbio che per 50 anni la FAI si è attribuita meriti che non aveva: quello di aver fin da subito aiutato i compagni incarcerati. Basta con i miti, basta con le leggende metropolitane, è ora che gli anarchici raccontino la Storia per quello che è veramente stata.

La lettera, articolo, appunto critico – non sappiamo esattamente come definire questo documento – scritto di Raniero Coari (figlio di Aldo Rossi e Anna Pietroni) dal titolo “La questione Valpreda e la Strage di Stato”, forse perché scritto da un compagno allora giovane, ci dà uno spaccato critico molto più intenso ed in qualche modo veritiero. Ci sono anche qui delle prese di posizione a noi non certamente favorevolissime, ma nel complesso ha il pregio di riconoscere esattamente quale fosse il reale stato del movimento anarchico di allora.

 Raniero ammette subito che “La strage di Piazza Fontana e la repressione che ne seguì trovarono il movimento anarchico diviso e disorientato” e la stessa FAGI “ormai disunita”.  Prosegue poi ricordando come “i gruppi di Roma della FAI-FAGI (fossero) in contrasto con un ambiente eterogeneo di giovani coagulatosi attorno al compagno Valpreda e che avevano costituito un sedicente gruppo libertario “22 marzo” che nei propositi verbali doveva compiere azioni esemplari contro il potere”.  Quello che non si capisce è se il nostro essere eterogenei fosse il motivo per cui diventassimo anche “sedicenti”, oppure quello che non ci potevano perdonare erano i nostri “propositi verbali” di voler compiere azioni esemplari.

Dopo aver fatto il quadro della situazione, Raniero arriva finalmente al punto “A tutto ciò si aggiunga l’opera di individui come il fascista Merlino e qualche poliziotto infiltratosi nei nostri ambienti ed infine, purtroppo, la poca fiducia che alcuni compagni di Milano e Roma nutrivano nei confronti dello stesso Valpreda e di alcuni compagni ancora prima della strage, poca fiducia determinata, disgraziatamente, da circostanze poco chiare solo in seguito risolte definitivamente.”

Chiariamo subito: oltre a Merlino vi era un solo poliziotto infiltrato. Parlare di ‘’qualche’’ è pericoloso perché può dare adito ad ulteriori voci incontrollate, come ad esempio quella della presenza nel nostro interno del fascista e collaboratore del SID Stefano Serpieri, cosa mai avvenuta!

Segue il passaggio chiave: “Vi era quindi il timore che, attraverso l’implicazione di elementi poco chiari, si potesse trascinare tutto l’anarchismo italiano sul banco degli accusati inchiodandolo per sempre come portatore di una ideologia aberrante ed omicida”. Finalmente tutto diventa chiaro. Raniero da compagno schietto e sincero quale era, dice quello che in questi lunghi anni tutti hanno avuto paura di ammettere: che siamo stati sacrificati sull’altare della ragion di stato, ovvero per proteggere la propria organizzazione.

E Raniero non si ferma qui, anzi puntualizza, ci fa capire la genesi ed il perché di quegli articoli canaglieschi su Umanità Nova “…Questo spiega perché la Fai e quindi Umanità Nova prenda subito posizione sul “suicidio” del compagno Pinelli e dichiari fin dal primo numero dopo la strage (U.N: n 43 – 20 di. ’69) la natura fascista e reazionaria delle bombe di Milano e Roma ben diverse da quella, tragica, del Diana del 1920 maturata in tutt’altra situazione storica e politica, e poi invece sul numero seguente (U.N. 27 dicembre ’69) pubblichi una dichiarazione dei gruppi FAI-FAGI di Roma i quali, dopo aver denunciato quali fasciste le bombe di piazza Fontana, dichiararono che il gruppo 22 marzo era frequentato da confidenti della polizia e fascisti (cosa peraltro risultata vera) e che, come gruppo inquinato, era stato già diffidato a libello locale; la dichiarazione denuncia il tentativo di presentare come anarchici i giovani del 22 marzo terminando con una chiara precisazione di non credulità delle inverosimili congetture presentate quali indizi di responsabilità penali” .

Raniero Coari seguita il suo racconto ricordando come alle “prime settimane di incertezze”  fanno seguito le “lettere circolari di Milano del 5-1-’70, della FAI di Bologna del 19-2-’70 e 2-4 e FAI-FAGI di Roma di Aprile ’70, riunioni del 22-3-’70 a Milano e 26-4-’70 a Roma – (in cui ) cominciano a concordare una linea comune d’azione in difesa degli imputati tutti, a parte Merlino, e quindi le varie posizioni si chiariscono definitivamente e su Umanità Nova dell’11 aprile (manifestazione anarchica del 24 marzo in piazza Duomo a Milano) e del 25 aprile ’70 possiamo leggere delle prime manifestazioni di anarchici di una certa rilevanza, con relativa repressione, in favore di Valpreda e compagni.”

Tutto materiale rimasto fino ad oggi sconosciuto, chiuso negli archivi… degli anarchici questa volta. Uniche eccezioni sono quelle circolari di Milano prontamente inviate da una spia infiltrata ai servizi e poi finite tra gli atti processuali o tra gli scatoloni degli Affari Riservati.

Nel 1997 Raniero Coari finalmente ci rende completa giustizia. Lo fa su Umanità Nova del 29 giugno in un articolo titolato “Strage di Stato e dintorni Una testimonianza sul movimento anarchico a Roma all’epoca della Strage di Stato. Nostra intervista a Raniero Coari”

….. “Il circolo Bakunin oltre all’attività normale di propaganda svolgeva azione di proselitismo e sostegno in alcune zone disagiate di Roma e gestiva la sede in un rione centrale. Dal circolo si staccarono alcuni compagni, tra cui Valpreda all’epoca a Roma, che formarono per brevissimo tempo il famoso 22 Marzo.

Si è scritto di un gruppo anarco-fascista da parte della stampa di regime anche per la presenza di Mario Merlino…

La realtà è stata che alcuni compagni intesero svolgere un’attività politica autonoma non riconoscendosi nelle posizioni della FAI-FAGI e formarono un gruppo più movimentista rispetto al nostro e tutto si sarebbe in seguito chiarito se il potere non avesse predestinato il 22 Marzo a pedina principale del suo gioco. Difatti l’agente della squadra politica che si era avvicinato al Bakunin si spostò al gruppo di Valpreda mentre invece Merlino frequentò per due o tre volte i nostri gruppi per poi sparire verso ottobre causa esami…

Merlino viene poi ripescato ed inserito quale militante del 22 Marzo solo per avallare la tesi degli opposti estremismi che anche la sinistra ufficiale spesso ebbe modo di ripetere stupidamente. Ricordo che alla morte dei compagni calabresi la stampa di sinistra parlò, imbeccata dalle veline della polizia politica, di anarco-fascisti. “

2019 11 20 Girotondi, musicarelli, il 12 dicembre e gli anarchici di Enrico Di Cola

20 novembre 2019

In queste ultime settimane alcuni compagni mi hanno chiesto quali conseguenze avrà, secondo me, la frattura creatasi all’interno del movimento anarchico dopo la presa di posizione del Ponte della Ghisolfa di non aderire all’iniziativa dei familiari di Pino Pinelli. Come si sa io e gli anarchici dell’ex 22 Marzo – anche come Associazione Pietro Valpreda/Gli anarchici per la verità sulle stragi – abbiamo già aderito e condiviso a livello politico la posizione del Ponte su questo tema. Qui vorrei spiegare meglio il perché e cosa penso avverrà in futuro. Prima di farlo vorrei però proporvi la lettura della recensione di un libro appena dato alle stampe dalle edizioni eleuthera, che mi sembra già fornisca parte della mia risposta.

La strategia dell’emozione” di Anne-Cécile Robert

Commuoversi è più facile che pensare, come dimostra l’uso del like nei social network, simbolo del potere sproporzionato che viene oggi attribuito alle emozioni nel determinare il vero e il falso: basta un click e il dibattito è finito, la verità rivelata. E così la società disimpara a pensare collettivamente e perde una dopo l’altra le sue difese immunitarie contro la manipolazione e la credulità.

L’oceano emotivo che ha travolto la nostra società sta progressivamente erodendo lo spazio sociale e politico marginalizzando lo spirito critico e la ragione stessa. Se è vero, come ha detto Hegel, che «nulla di grande può essere realizzato senza passione», questo impero dell’emozione, che depoliticizza gli eventi concentrandosi sugli effetti e non sulle cause, sta minando la capacità dell’individuo di scegliere, decidere, conoscere. Col fazzoletto in mano, l’individuo si abbandona a una facile emotività che lo depotenzia, mentre «coloro che sanno», gli «adulti» che detengono il potere, si occupano di mandare avanti il mondo. Una strategia ben congegnata che riduce i cittadini a uno stato di subalternità infantile neutralizzando ogni spirito di rivolta. Questo controllo sociale giocato sul registro emozionale, di cui si analizzano le manifestazioni più deleterie come il narcisismo compassionevole da social network o l’ossessione mediatica per le breaking news, sta mettendo a rischio la nostra vita democratica. Ed è per questo che l’autrice ci invita – senza fare sconti a nessuno, a cominciare dalla stampa – ad asciugarci le lacrime e tornare a quello spirito critico che, solo, può salvare la democrazia.”

Sia pur con le necessarie e dovute differenze del caso, mi sembra che in questo libro si colga un aspetto importante della discussione in atto: ci ricorda infatti che “Commuoversi è più facile che pensare”, ma mette in risalto come l’ “impero dell’emozione, che depoliticizza gli eventi concentrandosi sugli effetti e non sulle cause, sta minando la capacità dell’individuo di scegliere, decidere, conoscere”.

Al di fuori di quanto si dice in giro, se si vuol davvero essere informati e quindi prendere posizione in modo cosciente e non basandosi solo sui sentimenti (sia pur forti e di cui tener conto) mi sembra che il testo con cui i compagni del Ponte della Ghisolfa convocano un’assemblea per organizzare il corteo del 12/12 faccia non solo chiarezza, ma sgomberi il campo da ogni dubbio su di cosa stiamo veramente parlando e perché i compagni dovrebbero prendere una posizione politica che sia coerente con la nostra storia. Vediamo cosa dicono:

Assemblea per il corteo partigiano del 12/12

Ponte Della Ghisolfa Milano and Osservatorio democratico sulle nuove destre Italia

Come alcuni o molti sapranno, il circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa ha indetto un corteo alternativo a quello organizzato dalla sigla che va sotto il nome di MAAMS (Milano Antifascista Antirazzista Meticcia e Solidale).

Per tanti anni il 12 dicembre ci ha visto coorganizzare in una assemblea cittadina, fra diverse realtà e individualità, le iniziative per rinnovare la memoria della strage di stato, convinti come eravamo e come siamo tuttora, che la strage non fu solo contro gli anarchici, ma contro chiunque esprimesse dissenso e voglia di libertà, allora come oggi.

Per lungo tempo, il corteo del 12 è stato un momento di unità nella diversità: ogni realtà portava le sue parole d’ordine all’interno di una cornice di conflittualità.

Negli ultimi anni, tuttavia, le cose hanno cominciato a prendere una piega che non ci piaceva: come l’anno scorso quando l’iniziativa non doveva essere sottoscritta da tutte le sigle aderenti, ma averne una sola (MAAMS appunto) in nome di una presunta efficacia, a scapito della bellezza della diversità.

Anche quest’anno abbiamo partecipato e cercato di contribuire all’assemblea cittadina per il 12 dicembre. Cercato, appunto. Purtroppo le dinamiche assembleari che si sono palesate ci hanno messo davanti ad un muro (di gomma) dove qualunque nostra istanza (in qualunque forma la si sottoponesse: personalmente in assemblea, via mail alla mailing list, per iscritto e distribuito in assemblea) cadeva nel silenzio, a parte forse un solo commento in quattro assemblee.

Le nostre proposte tenevano ovviamente conto del contesto democratico in cui eravamo e perciò, come tutti gli anni, abbiamo “limato” tutto ciò che poteva risultare fuori luogo in quell’ambito, ma non rinunciando mai a determinati concetti che si possono riassumere in “VALPREDA INNOCENTE, PINELLI ASSASSINATO, LA STRAGE E’ DI STATO” e non eravamo, siamo e saremo disposti a farci imporre una linea di comunicazione politica.

Un muro di gomma che probabilmente nasceva dalla voglia di estromissione, per probabili calcoli opportunistici, del Ponte della Ghisolfa o comunque un forte ridimensionamento politico nell’ambito delle iniziative.

Non vogliamo nascondere neanche che in quella sede abbiamo, sin dal primo incontro, manifestato la nostra contrarietà all’iniziativa della catena musicale. Non spiegheremo adesso il perchè, per chi ha voglia legga il nostro blog o ci chieda, saremo ben lieti di rispondere in merito.

Tornando all’assemblea, non solo eravamo di fronte ad un muro di gomma, ma questa si dava una linea di comunicazione politica unica (con tanto di reprimenda per chi non la seguiva), faceva sua la catena musicale senza mai palesarlo in assemblea (anzi a giudicare dagli articoli scaturiti dalla conferenza stampa, sembrerebbe essere l’iniziativa centrale) e per finire dichiara la non contrapposizione con la commemorazione del comune. Oltretutto si dice che ci sarà Mattarella (cioè l’attuale rappresentante del mandante della strage di stato) in quei giorni a Milano, che in qualche modo farà la sua testimonianza.

Per questi motivi abbiamo abbandonato l’assemblea ed indetto un’iniziativa alternativa, PARTIGIANA! Un’iniziativa dalla parte delle vittime, che non è disposta a scendere a compromessi con i carnefici, anzi che vorrebbe inchiodare alle responsabilità i carnefici. Un’iniziativa che reclami giustizia. Che conquisti giustizia.

A questo corteo hanno finora aderito l’Osservatorio democratico sulle nuove destre Italia, Pavia, Varese e Como, il Leoncavallo, l’Associazione Pietro Valpreda, il Comitato Lombardo Antifascista, la Rete Antifascista di Cologno Monzese e il comitato per la memoria di Saverio Saltarelli.

Per chiarire ulteriormente la nostra posizione, per raccogliere nuove adesioni e per costruire (per quanto sia possibile fare in 3 settimane) insieme l’iniziativa, invitiamo tutte e tutti il prossimo 24 novembre alle 18.00 c/o circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa in viale Monza 255, anche chi in tutti questi anni non ha trovato nell’assemblea cittadina il giusto contesto nel quale esprimersi.

TUTTE E TUTTI.

Venite anche se ci odiate e su facebook ci coprite di insulti per via delle nostre scelte e posizioni. Sarà una buona occasione per chiarirci.

Ovviamente se ci odiate perchè siete fascisti, liberisti ecc ecc avrete il giusto benvenuto 🙂

Dopo aver letto questo testo penso che chiunque (parlo sempre e solo di anarchici ovviamente) abbia aderito ad iniziative diverse da quella dei compagni del Ponte dovrebbe fare un passo indietro e riflettere sulle scelte fatte.

Cosa credo io che avverrà in futuro? Io credo che il “futuro”, sia di già avvenuto e che si tratti di una frattura profonda ed insanabile. Il “domani” sarà esattamente come quello che si vede oggi, con la differenza che gli “avvoltoi democratici” che si sono posizionati con la famiglia di Pinelli, saranno più forti di oggi!

Però questa spaccatura ha un pregio, quello di portare finalmente alla luce due metodi contrapposti di concepire l’anarchismo. L’uno si lega al nostro passato, mette i valori base, i valori etici, politici ed umani al primo posto. L’altro è quello sempre pronto ad ammiccare alla piccola borghesia rossa, disposta ai continui compromessi e persino a rinunciare ai propri ideali per ottenere piccoli benefici compatibili con questo sistema.

Questa divisione è evidente quando guardiamo come si stanno muovendo certi anarchici. Al di fuori delle posizioni del Ponte della Ghisolfa che uno può condividere o meno, mi sembra che tutto sia stato gestito in maniera irresponsabile e poco anarchica. I gruppi, i circoli, le individualità anarchiche (in maggioranza FAI/USI) che avessero voluto essere vicini alla famiglia Pinelli come atto di affetto, avrebbero certamente potuto farlo, però, e qui è un però che pesa come una montagna, allo stesso tempo avrebbero potuto essere solidali con il Ponte (soprattutto quando questi sono stati attaccati dalla stampa borghese) ed aderire ufficialmente anche alle loro iniziative. Vergognoso il loro eterno silenzio ogni qual volta si cerca di screditare ed infangare il compagno Valpreda, sia da parte di squallidi personaggi di tutti i colori politici, ma ancor di più ed in maniera più ferma quando questo fango viene prodotto da uno come Paolo Finzi, che dovrebbe essere un compagno anarchico! Se non si traccia una netta linea di demarcazione tra quello che è consentito fare e dire come compagni, allora vuol dire che si marcia su strade diverse e che bisogna prenderne atto una volta per tutte.

Dopo il ’69, non ho più messo piede al Ponte della Ghisolfa, conosco solamente di nome qualche compagno, però so benissimo il lavoro che il circolo ha svolto in questi 50 anni per mantenere viva la memoria di Pino Pinelli e per la liberazione dei compagni incarcerati prima e della difesa della memoria di Pietro Valpreda poi. E questa è una cosa che non ha prezzo, è un patrimonio per tutto il movimento anarchico. Può essere che a volte anche quelli del Ponte abbiano compiuto scelte più o meno condivisibili. Ma non è questo il punto. Il punto è che la difesa del Ponte oggi, è la difesa di una diga che, se la si lascia tracimare, porterebbe solo fango e distruzione al suo passaggio. E questo è un favore che non possiamo permetterci di fare allo Stato, quello stesso Stato che reprime ed assassina compagni ieri come oggi e contro cui tutti noi combattiamo.

2019 11 17 Si, Paolo Finzi, io ero uno di quelli brutti, sporchi e cattivi… ed orgoglioso di esserlo stato di Enrico Di Cola

17 novembre 2019

L’ultimo numero di A rivista anarchica è interamente dedicato a Pino Pinelli. All’interno vi è un articolo di Paolo Finzi intitolato Il mio Pino. Visto che in questo capitoletto si parla di tematiche legate all’essere anarchici, alla questione della violenza, oltre che del rapporto tra Valpreda e Pinelli vorrei anche io dire qualcosa al riguardo.

Il linguaggio

Quello che più colpisce in questo articolo è il livore e la volontà denigratoria che Finzi dimostra contro Pietro Valpreda e i compagni a lui vicini. E questo lo fa utilizzando un vocabolario tipicamente borghese e reazionario e mettendo in bocca a Pinelli pensieri che sono suoi. Ecco alcuni esempi: Pinelli sarebbe stato per “il rifiuto di ogni stolta esaltazione della violenza, di comportamenti anti-sociali, ecc.”, il rifiuto di chi “nei pur ristretti ambiti anarchici e libertari, si faceva portavoce di un anarchismo stiracchiato tra droga e bombette, estremismi verbali e sporcizia personale, irregolarità ed estemporaneità”.

Come tutti sappiamo Pinelli, per la sua età, faceva parte della generazione precedente a quella del ’68, all’epoca noi ragazzi lo vedevamo come un vecchio anche se in realtà aveva poco più di 40 anni. Era uno dei pochi compagni della generazione di mezzo, quelli cioè che erano stati troppo giovani per partecipare alla guerra di Spagna e nel 68 troppo vecchi per vivere fino in fondo i fermenti delle lotte studentesche. Pinelli inoltre era un lavoratore, un uomo sposato e con figli, uno cresciuto con la vecchia cultura anarchica. Sebbene fosse aperto e curioso di conoscere il nuovo, a differenza di Valpreda che era poco più giovane di lui, non seppe o non poté “diventare parte” del movimento, del nuovo che stava nascendo.

Lo potremmo definire un osservatore esterno, rispettoso di quanto stava germogliando attorno a lui in quegli anni. Per questo sono certo che le frasi di Finzi sopra riportate non facessero parte del suo bagaglio culturale. Sono convinto che si tratti invece del pensiero, della cultura piccolo borghese, gretta e reazionaria, di Paolo Finzi (quello di allora come quello di oggi) che evidentemente non venne mai neppure lontanamente scalfito dalla profonda rivoluzione culturale in atto in quegli anni.

L’esaltazione stolta della violenza” vorrebbe dire forse che Pinelli era contrario a chi inneggiava a Bresci, a Caserio, e a tutti quegli anarchici che si erano immolati per la causa anarchica contro re e dittatori? Non credo proprio, come non credo che ci sia un solo anarchico che non rivendichi quelle azioni esemplari.

Nell’articolo di Finzi colpisce anche la deriva psuedo sociologica nella quale scivola quanto parla di “comportamenti anti-sociali” .

Se io colpisco dei simboli, come ad esempio una vetrina di una multinazionale americana o l’ufficio governativo di un paese dittatoriale (cose che io rivendico di aver fatto) non credo proprio che il mio sia un atteggiamento anti sociale. Ho semplicemente compiuto atti di cosciente solidarietà verso gli oppressi, ho cercato di rompere il silenzio complice degli Stati verso quelle dittature. E sono sicuro che Pinelli sapeva fare questa distinzione.

Finzi deve aver avuto un’infanzia molto infelice ed un’adolescenza ancor più triste. Quando parla di “anarchismo stiracchiato tra droga e bombette, estremismi verbali e sporcizia personale, irregolarità ed estemporaneità” parla infatti di un’intera generazione, di quella della contestazione globale, che va dai “figli dei fiori” ai Provos, per arrivare a noi anarchici sessantottini. Come centinaia, migliaia, di giovani tutti abbiamo passato in qualche modo queste fasi. Tutti abbiamo tirato qualche spinello, abbiamo lanciato qualche molotov, abbiamo alzato i toni della discussione estremizzando le nostre posizioni per provocare un qualche tipo di reazione da parte di un mondo popolato da zombies (anche anarchici). A volte ci è capitato di essere sporchi, e questo succedeva quando si viaggiava in autostop per cui ci si poteva solo arrangiare con qualche fontanella. Sebbene non sia rilevante, ad onor del vero devo dire che Valpreda anche in queste occasioni era sempre molto attento alla sua pulizia personale e viaggiava addirittura con una bottiglietta di alcol per disinfettarsi e migliorare la sua circolazione sanguigna.

Ma il mio record personale di sporcizia – sei giorni senza lavarmi – l’ho raggiunto quando sono stato ospite delle patrie galere, in cui la doccia era consentita una volta a settimana e per il resto avevi solo 15 minuti per sciacquarti e pulire il buiolo prima del rientro in cella! Naturalmente ero molto irregolare ed estemporaneo nel tirare molotov e lanciare pietre: lo facevo solo quando ero sicuro di non essere preso, quando ne avevo o mi si presentava l’occasione. Certamente non era una attività quotidiana! Povero Finzi, forse ci invidia perché noi osavamo fare quello che lui aveva paura di compiere, non ha saputo ribellarsi fino in fondo contro la famiglia e la società ed oggi – come tanti pentiti – rinnega tutto e tutti, rinnega il modo di essere e di vivere di un’intera generazione di ribelli!

Anarchia non vuol dire bombe?

Nel paragrafo intitolato Anarchia non vuol dire bombe leggiamo “… Vi si accenna (si parla della lettera inviata il 12 dicembre 1969 da Pinelli al compagno ingiustamente incarcerato per le bombe del 25 aprile, Paolo Faccioli) a quello che è sempre stato un nostro chiodo fisso: la questione della violenza, il tentativo del potere di far apparire gli anarchici per una banda di bombaroli ma anche il fianco, che spesso gli anarchici hanno prestato, a dar sostanza a questa vera e propria campagna di disinformazione. Qui si entra nella vexata questio del rapporto tra anarchia e violenza, rapporto fini-mezzi, dove finisce la necessità di autodifesa e le mille altre questioni connesse.

…… (Pinelli ndr) portava, in questa sua mirabilmente aperta prospettiva pluralistica, il segno delle proprie origini e della propria storia: la serietà, la credibilità, il rifiuto di ogni stolta esaltazione della violenza, di comportamenti anti – sociali, ecc. Nel solco della migliore tradizione dell’anarchismo.

Istintiva ed etica, prima ancora che politicamente motivata, la sua opposizione, il suo vero e proprio rifiuto di chi, invece, nei pur ristretti ambiti anarchici e libertari, si faceva portavoce di un anarchismo stiracchiato tra droga e bombette, estremismi verbali e sporcizia personale, irregolarità ed estemporaneità. E siccome questi atteggiamenti erano anche presenti ai margini dell’anarchismo militante, Pino era tra quelli che più lucidamente li avversavano. “

Non faccio mai citazioni di ‘’testi sacri’’ perché lo trovo una fastidiosa saccenteria, ma questa volta, visto che Finzi si fa arbitrariamente interprete del pensiero malatestiano, mi ci vedo costretto. Come tutti i “testi sacri” infatti, anche Malatesta può essere interpretato a proprio piacimento. A me piace fare queste di citazioni: “Gli anarchici non hanno ipocrisia. La forza bisogna respingerla colla forza: oggi contro le oppressioni di oggi; domani contro le oppressioni che potrebbero tentare di sostituirsi a quelle di oggi. (“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924)”. “Gli anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. Ma se un galantuomo dice che egli crede che sia una cosa stupida e barbara il ragionare a colpi di bastone e che è ingiusto e malvagio obbligare uno a fare la volontà di un altro sotto la minaccia della rivoltella, è forse ragionevole dedurre che quel galantuomo intende farsi bastonare e sottomettersi alla volontà altrui senza ricorrere ai mezzi più estremi di difesa?… La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto… Lo schiavo è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello sforzo umano e delle sofferenze umane. (“Umanità Nova”, 25 agosto 1921). Oppure ….. “Ma allora, si potrà domandare, perché nella lotta attuale contro le istituzioni politico-sociali, che giudicano oppressive, gli anarchici hanno predicato e praticato, e predicano e praticano, quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi momenti, molti avversari in buona fede han creduto, e tutti quelli in mala fede han finto di credere che il carattere specifico dell’anarchismo fosse proprio la violenza? La domanda può sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli è che perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a lavorare per lui ed a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati. (“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924). Ma anche: “… Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per sé stessa un male. Deve essere violenta perché sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunciarvi volontariamente. Deve essere violenta perché la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini. (“Umanità Nova”, 12 agosto 1920).

Pinelli era dunque contrario alla violenza? Certamente si, come tutti gli anarchici. Ma questo non significa che fosse un pacifista. Pinelli non aiutava forse la resistenza, anche armata, in Grecia e Spagna? Non sosteneva forse i compagni arrestati ingiustamente (perché innocenti) a Milano per le bombe del 25 aprile? O Finzi vuol farci credere che Pinelli e Croce Nera fossero ignari che alcuni di questi compagni qualche bomba dimostrativa l’avessero messa davvero?

Se Finzi vuole fare questo gioco, quello di cercare di far passare Pinelli per un santino buono per tutte le stagioni, che stia molto attento. Finzi e A rivista vogliono che parliamo di personaggi come Gianfranco Bertoli? Noi siamo pronti a parlare anche di queste cose se proprio volete. Oppure solo Valpreda è da isolare e disprezzare pubblicamente? Vedi Finzi, la storia è storia, e non quella che uno vorrebbe che sia! Giù le mani da Pietro una volta per tutte!

Dell’allontanamento di Valpreda dal Ponte della Ghisolfa da parte di Pinelli dopo una sua “iniziativa sconsiderata” ne abbiamo già parlato a sufficienza e con una testimonianza importante: quella del compagno Paolo Braschi che era presente ai fatti.

Tralasciamo la presunta analogia con quanto sarebbe avvenuto a Roma. Intanto precisiamo per l’ennesima volta che la sede del Bakunin non era in via dei Taurini (dove all’epoca c’era solo la redazione di Umanità Nova) bensì in via Baccina. E poi la cosa fu ben diversa. Diversa perché in questo caso ci si basò solamente su voci e supposizioni – poi verificatesi totalmente infondate – della cui diffusione il primo responsabile, anche se involontario, fu proprio Pinelli. Anche su questo abbiamo scritto e scriveremo ancora per fare il massimo di chiarezza su questo episodio.

Quale è la vera identità politica di Pino Pinelli.

Anche su questa questione Paolo Finzi gioca sul massimo dell’ambiguità, vediamo come: Finzi scrive che “Pino era militante del gruppo Bandiera Nera, aderente (in successione) ai Gruppi giovanili anarchici federati (Ggaf) e poi ai Gruppi anarchici federati (Gaf). Anche se nel 1965 il suo nome compare tra i partecipanti a una riunione pisana dei Gruppi d’iniziativa anarchica (Gia) nati in quell’anno in contrasto con la linea organizzativa della maggioritaria Federazione anarchica italiana (Fai)”. Siccome Bandiera Nera e GAF nascono nel biennio ’68-’69 Finzi vorrebbe farci credere – o forse sono io a dargli questa interpretazione maliziosa – che Pinelli fosse stato solo un casuale partecipante (notare che qui Finzi non parla di militanza ma di semplice partecipazione di Pinelli) ad una riunione dei Gia. Insomma, un semplice passante. Peccato che stiamo parlando del Convegno di fondazione dei Gia, e non di una riunione qualsiasi. Così come dovrebbe spiegarci come mai nel novembre 1969 Pino si trovasse ad Empoli al Convegno dei GIA. Era un “passante” anche in quella occasione? E la sua lettera di richiesta di adesione ai Gia (che si trova negli archivi di Aurelio Chessa) è forse stata scritta da altri? Ma ci faccia il piacere!

Quel giorno a Milano era freddo

Anche qui Finzi mostra il suo lato migliore. Il paragrafo inizia così: “Sulla questione (quale questa sia Finzi ce lo dirà più avanti) c’è stata una polemica (se ne trova traccia in rete) tra alcuni coimputati di Valpreda per la strage di piazza Fontana e dintorni contro il sottoscritto, per quanto da me scritto nel necrologio dello stesso Valpreda (“A” 284, ottobre 2002). Scusandomi per eventuali piccole imprecisioni nel ricordo, confermo che in un corteo in piazza Duomo nel 1969 ho visto e sentito Valpreda e una decina di suoi compagni urlare “Bombe, sangue, anarchia”, con noi del circolo dietro a cercare – pateticamente – di coprire le loro urla con un ritmato “Cafiero, Malatesta, Bakunin”. Si era alla rottura. Che avvenne proprio anche grazie a Pinelli, con il rinfacciare in un incontro a Valpreda e ai suoi compagni l’inaccettabilità di un simile comportamento pubblico e la definitiva divergenza delle rispettive strade”.

Ringraziamo Finzi per etichettarci come “coimputati” di Valpreda piuttosto che come compagni. Da lui essere chiamato compagno lo riterrei un insulto. Inoltre le sue non erano affatto ‘’piccole imprecisioni’’ e quindi quelle false scuse (peraltro giunte con 10 anni di ritardo) non sono credibili. Entrambi gli articoli li troverete sul nostre Blog stragedistato.wordpress.com per cui rimandiamo a quanto già da noi scritto.

Per finire non possiamo non sottolineare la confusione della ricostruzione di Finzi che prima sostiene che Valpreda fu cacciato dal Ponte “dopo una iniziativa sconsiderata” e alcune righe più sotto attribuisce l’allontanamento allo slogan “bombe, sangue, anarchia” gridato da Valpreda durante una manifestazione.

Un’ultima cosa mi interesserebbe sapere: stiamo parlando di un gruppo anarchico o di cosa? E se si, vorrei sapere se davvero Pinelli, da solo, senza consultarsi con nessuno, avesse il potere di cacciare o meno dei compagni.

Qualche anno fa, Paolo Finzi fu invitato ad un pubblico confronto con alcuni compagni dell’ex 22 Marzo organizzato dal gruppo Fai di Roma. Prima aderì all’invito ma all’ultimo momento, il giorno stesso dell’incontro, disse che era malato e non si presentò. Intanto certi signori di Milano seguitano a parlare di noi come se non esistessimo e come se loro fossero i detentori della verità! Lo abbiamo già detto e lo ripetiamo: che nessuno si permetta più di (s)parlare a nome nostro e della nostra storia!

Gli anarchici, il 22 Marzo e il 12 dicembre 1969 – di Enrico Di Cola (parte seconda)

15 novembre 2019

Le voci su Valpreda e quanto queste pesarono nell’isolare il gruppo 22 Marzo alla vigilia della strage e subito dopo.

Probabilmente le voci su un Valpreda “canterino” con la polizia risalgono a quanto scritto nel maggio del 1969 dal Questore di Milano Parlato (lo stesso Parlato che ritroviamo a Roma il 12 dicembre) e inviato alla magistratura milanese. Si tratta del resoconto delle indagini di polizia per gli attentati del 25 aprile. Non sappiamo esattamente quando gli avvocati difensori dei compagni anarchici di Milano poterono prendere visione degli atti riguardanti i propri clienti (per i compagni del 22 Marzo gli avvocati dovettero aspettare almeno 40 giorni), però è certo che almeno a partire da ottobre la voce già circolava negli ambienti anarchici. Voci che portarono il Bakunin a prendere sempre più le distanze dal 22 Marzo e innestare un pesante clima di sospetto tra i compagni di Roma.

A fine ottobre-inizio novembre la situazione si fa sempre più pesante. Roberto Mander in lettere inviate a compagni in diverse parti d’Italia scrive che non bisogna fidarsi di Valpreda e invita a diffidare e non avere contatti con quelli del 22 Marzo. Queste lettere assieme ad una sua inviata a Pinelli il 5 novembre, finiscono agli atti per dimostrare l’ambiguità di Valpreda.

Verso metà novembre si arriva allo scontro finale tra gli anarchici romani quando durante una riunione degli studenti al Bakunin il compagno Aldo Rossi della FAI taccia Pietro Valpreda di essere o una persona leggera o addirittura un delatore della polizia. I due arrivano quasi allo scontro fisico, ma i compagni riescono a separarli e portare fuori dal locale Valpreda.

Il primo dicembre Pino Pinelli spedisce due lettere: una indirizzata a Aldo Rossi (FAI) e l’altra a Pio Baldoni (GIA) per ‘’ufficializzare’’   i sospetti su Valpreda.

Il 12 dicembre scoppiano le 5 bombe – 3 a Roma e 2 a Milano – e vi è la carneficina nella banca di piazza Fontana. La notte stessa molti compagni del 22 Marzo e del Bakunin vengono portati in questura o presi dai carabinieri. Tutti quelli fermati dai carabinieri verranno rilasciati. Fin da subito, almeno a partire dal 13 dicembre l’interesse degli inquirenti negli interrogatori è puntato su Valpreda. Inizia il lungo isolamento dei compagni fermati e poi incriminati che durerà 40 giorni. 40 giorni di interrogatori senza avvocati, senza leggere giornali, senza avere contatti con gli altri compagni.

Il primo comunicato FAI/FAGI di Roma è del 13 dicembre. Secondo quanto riferisce l’agenzia Ansa, la “Federazione anarchica italiana” e la “federazione anarchica giovanile” di Roma hanno protestato per la “repressione” messa in atto “contro pretesi elementi sovversivi, ossia contro elementi di estrema sinistra ed anarchici, a seguito degli attentati provocatori di Milano e Roma”. Questo comunicato fa presumere che la situazione tra compagni romani sia ancora di solidarietà. La svolta infatti avviene subito dopo l’incriminazione di Valpreda e dei compagni romani (il 16 dicembre): Umanità Nova del 20 dicembre 1969.

Dichiarazione di Gruppi FAI – FAGI di Roma

Gli anarchici di Roma aderenti alla F.A.I. ed alla F.A.G.I. si associano incondizionatamente alla presa di posizione della Commissione di Corrispondenza della F.A.I. e nel respingere ogni vile tentativo reazionario e fascista di attribuire agli anarchici una qualsivoglia responsabilità diretta o indiretta negli esecrabili attentati:

PRECISANO: che i funzionari inquirenti ed in particolare quelli delle squadre politiche di Roma e Milano, che da vari mesi seguivano costantemente le attività del cosidetto “Gruppo 22 marzo” e di ognuno dei suoi membri, erano a conoscenza dell’assoluta mancanza di ogni possibile collusione tra costoro ed ambienti ed elementi specificatamente anarchici, così come era a loro noto che il Gruppo 22 marzo ed ognuno dei pochi individui che lo componevano e quanti altri avessero contatti più o meno occasionali con loro erano stati da noi estromessi dalle nostre sedi (a Roma come a Milano) e diffidati ad intervenire persino a riunioni aperte ai simpatizzanti ed al pubblico, in quanto tra di loro erano stati ravvisati, senza alcun dubbio, elementi di chiara provenienza e tendenza fascista.

DENUNCIANO pertanto all’opinione pubblica ed a chi di dovere (perchè un’inchiesta in tal senso sia aperta) quei funzionari della questura e delle squadre politiche che in varie occasioni, alla stampa, alla radio ed alla televisione hanno rilasciato provocatorie e diffamatorie dichiarazioni definendo “anarchici” i sospettati e giungendo persino ad attribuire, come unico e solo movente delle infami stragi, “l’ideologia anarchica degli esecutori”, tacendo volutamente quanto era a loro conoscenza.

RAVVISANO in questo irresponsabile e denigratorio comportamento dei funzionari inquirenti una palese ed ingiustificabile (anche se, forse, non premeditata) collusione con le forze reazionarie.

DICHIARANO che quanto sopra non comporta alcun giudizio di accusa contro gli arrestati, tenuto soprattutto conto delle inverosimili congetture fin qui rese pubbliche come indizi di responsabilità, ma è soltanto una necessaria messa a punto delle nostre chiare posizioni.

Gruppi FAI – FAGI di Roma

Se possibile, peggio ancora, riesce a fare Mario Mantovani direttore responsabile del giornale che nel numero successivo di Umanità Nova si metterà allo stesso livello della stampa borghese e della questura. Qui alcuni stralci:

Il (giornale) fascista “Borghese” pensava forse, al fine di mantenere il “ritmo”, ai vari “sergenti” alla Valpreda da mandare avanti in avanscoperta, utilizzando l’ambivalenza dei loro gruppi provocatori neofascisti tipo “22 marzo” e simili, truccati di anarchismo. Poi, dopo i “sergenti”, sarebbero venuti i “colonnelli” a far tabula rasa, passando dall’eliminazione della punta anarchica a quella della soppressione di ogni libertà per tutti, movimento operaio in testa. Esattamente come è avvenuto nelle sanguinose vigilie della marcia su Roma, pretesto il “Diana”, ma anche gli scioperi e le rivendicazioni operaie – non lo si dimentichi – come oggi.

…. Un Valpreda tutto fare

Non ci interessa parlare del Valpreda, designato quale animatore, circondato da un gruppetto di giovani esaltati, di un circolo sedicente anarchico dove pullulavano elementi squadristi, feticisti del culto della violenza distruttiva. E’ stato unanimemente accertato che il Valpreda ed i suoi amici nulla avevano in comune col movimento anarchico e, tanto meno, con una qualsiasi ideologia libertaria.

Ma l’affrettata indagine poliziesca e giudiziaria, seguita dalla stampa che subitamente ha organizzato la “caccia all’anarchico”, non ha altro da offrire all’opinione pubblica che un miserabile relitto umano per configurare la mostruosa tragedia milanese? Perchè, con altrettanta prontezza, stampa e polizia non fanno parola sui sicuri mandanti ben attrezzati, in grado di “organizzare” e di manovrare gli esecutori degli atti terroristici?

E se poi risultasse – come da qualche parte si sussurra – che il Valpreda, principale accusato, era un confidente della polizia in veste di provocatore, come tanti ve ne sono stati nella storia dei “complotti” anarchici del passato? Valpreda è affetto da una grave malattia: domani può sparire senza bisogno di “suicidarlo”.

Il colpevole-copertura sopravviverebbe nei verbali e la leggenda degli anarchici terroristi, nel cervello dei semplici, pure. Quale migliore e provvidenziale epilogo per le fatiche poliziesche e per l’incolumità dei “mandanti” di alto rango rimasti anonimi?

Ipotesi, certo. Ma di queste se ne possono avanzare altre. Ammesso che il Valpreda giunga in assise, basterà il confronto col tassista milanese a costruire prova di colpevolezza? A parte il “modo” con cui il confronto all’americana è stato fatto (“identikit” mostrato preventivamente al teste e, forse, anche una fotografia), il parere dei giuristi sembra essere che un confronto costituisce un indizio soltanto per l’accusa, non la dimostrazione della colpa. Senza altre prove convincenti, senza la confessione dell’indiziato, vi è allora il “rischio” di dover assolvere?

Non inoltriamoci oltre nel labirinto delle ipotesi, delle contorsioni della stampa e degli inquirenti.

Tutto chiaro allora? Fino al momento prima dell’incriminazione c’è solidarietà con i compagni arrestati, dopo solo montagne di menzogne e merda per prendere le distanze da compagni con cui avevano lavorato fianco a fianco per mesi!

I primi a svegliarsi e indignarsi per queste prese di posizione e parole di fuoco sono (fortunatamente) tutti i gruppi anarchici di Milano che inviano il 5 gennaio 1970 una Circolare interna riservata Anarchici di Milano su Pinelli e Valpreda

CIRCOLARE: INTERNA RISERVATA – DICHIARAZIONE DEGLI ANARCHICI DI MILANO

Premessa

Quella che definiamo nei punti seguenti è la posizione unitaria assunta dagli anarchici di Milano di fronte ai fatti recenti.

Sottolineiamo che il nostro atteggiamento di fondo, fin dal 12 dicembre, è sempre stato sostanzialmente unanime, confermando e continuando l’atteggiamento già assunto dal 25 aprile in poi sulla natura provocatoria degli attentati che a partire dallo stesso 25 aprile si sono susseguiti in Italia, sulla loro funzione politica e sulla repressione (conf. i volantini, i manifesti, i comunicati stampa, i numeri 1 2 3 e 4 del bollettino “Croce nera Anarchica”).

Dichiarazione

1) Il compagno Giuseppe Pinelli (stimato militante dei gruppi anarchici Bandiera Nera ed inoltre membro attivo della Crocenera anarchica e del circolo Ponte della Ghisolfa) non si è ucciso. Egli è stato, direttamente o indirettamente, ammazzato. Tutto quello che la stampa, per suggerimento della Questura, può dire o aver detto per giustificare la tesi del suicidio è pura menzogna.

2) Pietro Valpreda è innocente ed è anarchico da oltre dieci anni (anche se da quasi un anno si era posto ai margini del movimento per certi suoi discutibili atteggiamenti). Egli pertanto deve in questa occasione essere difeso apertamente e senza riserve, rimandando ad altro momento il giudizio su oscurità che lo riguardano ma che non hanno attinenza con le accuse che gli sono state rivolte.

3) Anche il gruppo XXII marzo di Roma è secondo ogni apparenza e fino a prova contraria estraneo agli attentati. Il giudizio politico su questo gruppo, la discutibilità delle loro tesi, l’ambiguità di alcuni suoi componenti (secondo la stampa o secondo la denuncia dei compagni dei gruppi F.A.I. – F.A.G.I. di Roma) non devono determinare il nostro giudizio sulla loro colpevolezza.

4) La manovra antianarchica (basata sulle azioni provocatorie, sulle persecuzioni poliziesche e sulla diffamazione giornalistica) culminata con la strage di P.za Fontana, con gli arresti, i fermi, le perquisizioni, le denunce e con la violentissima, calunniosa campagna di stampa, è stata come previsto; l’inizio di una più vasta manovra repressiva contro tutta l’opposizione extra-parlamentare ed extra-sindacale.

E’ chiaro, ora, che questa manovra è servita anziché al paventato colpo di Stato (forse agitato volutamente per nascondere quello che frattanto stava succedendo) ad una “legale” involuzione autoritaria. E’ cioè servita non ai colonnelli ed al fascismo tradizionale, ma alla socialdemocrazia, la quale può spesso servire alla repressione antirivoluzionaria meglio di un regime scopertamente reazionario.

La connessione da più parti individuata tra elementi fascisti nostrani e greci (in particolare esistono le prove riguardo alla partecipazione greca agli attentati del 25 aprile) non è assolutamente in contrasto con l’analisi politica sugli attentati. E’ infatti certo che l’imperialismo americano che appoggia il regime dei greci ha, insieme a loro, interesse al governo forte in Italia ma, valutando che la situazione politica interna non potrebbe sopportare un colpo di Stato aperto, deve mascherarlo con la socialdemocrazia

GLI ANARCHICI DI MILANO

Milano 5/1/’70

(Nostra nota: Nella circolare ovviamente si intende il 22 Marzo e non il XXII Marzo di Merlino.) A questa prima circolare interna ne fa seguito una seconda in data 7 gennaio 1970 che precisa ulteriormente la questione: Circolare interna riservata di Gruppi anarchici su posizione Mario Mantovani e Umanità Nova.

CIRCOLARE: INTERNA RISERVATA

Milano 7/1/’70

A Mario Mantovani

A Umanità Nova

Alla C.D.C. della FAI

Alla C.D.C. dei G.I.A

A L’Internazionale

A tutti i gruppi anarchici di lingua italiana

Denunciamo come errata, dannosa ed assurda la linea assunta da Umanità Nova e da alcuni compagni sui recenti fatti. In particolare denunciamo i seguenti fatti:

1) L’atteggiamento ambiguo nei confronti di Pinelli (U.N. del 20/12/’69) “Al momento di andare in macchina apprendiamo dalla stampa di un preteso suicidio alla questura di Milano e di un fermato… … In attesa che piena luce venga fatta sul drammatico episodio ecc….; intervista di Mantovani al giornale cattolico “Avvenire” in cui diceva che P. non era anarchico particolare poi smentito blandamente sul numero successivo di U.N.; scarso rilievo dato all’assassinio del nostro compagno ecc.(*)

2) L’atteggiamento stupido ed odioso nei confronti del compagno Valpreda, dato nell’editoriale di Mantovani (U.N. del 27/12/’69) per colpevole, definito sergente fascista, miserabile relitto umano ecc. ecc.

3) L’interpretazione politica “ingenua”: congiura fascista contro cui si invoca un’unità antifascista ecc.

4) Tardiva ed eccessiva condanna del gruppo XXII marzo, di cui, se facevano parte elementi ambigui, facevano anche parte dei sinceri compagni, sia pure con atteggiamenti parzialmente discutibili.

Questa linea politica ha praticamente avallato certe interpretazioni anti anarchiche dei fatti e si è prestata al gioco della repressione e della calunnia.

Chiediamo a U.N. ed a Mantovani, quale redattore e quale responsabile della ignobile diffamazione di Valpreda di smentire le assurdità pubblicate e di modificare la linea politica (vedi documenti allegati).

Chiediamo a tutti i compagni di pronunciarsi su questa faccenda con chiarezza e decisione.

Rendiamo noto inoltre che se U.N. non recederà dal suo atteggiamento, saremo costretti a sconfessarla pubblicamente.

“Errori” come quelli commessi da U.N. non sono tollerabili in momenti così gravi per il movimento anarchico.

Per concludere facciamo notare come sia stato assai più coraggioso ed intelligente rispetto ad U.N. l’atteggiamento assunto da molti non-anarchici (come ad esempio il comitato di avvocati e giornalisti contro la repressione, di cui alleghiamo un paio di comunicati stampa).

GRUPPO UGO FEDELI

GRUPPI DI BANDIERA NERA

GRUPPO AZIONE LIBERTARIA

GRUPPO G. G. MORA

I LIBERTARI DEL POLITECNICO

CIRCOLO PONTE DELLA GHISOLFA

CIRCOLO SCALDASOLE

SEZIONE U.S.I. BOVISA

LEGA ANARCHICA MILANESE

CROCE NERA ANARCHICA

—–

(*) con l’occasione denunciamo anche il fatto che ai funerali di Pinelli, il cui importante significato politico non poteva sfuggire a nessuno, hanno partecipato solo (oltre ai compagni di Milano tutti, ed a giovani anarchici di varie città), un compagno di Canosa a titolo personale e un compagno di Senigallia in rappresentanza del suo gruppo.

Come queste due circolari dimostrano, la situazione interna al Movimento anarchico sulla posizione da prendere riguardo ai compagni incarcerati, è ancora totalmente caotica e mostra divisioni profonde. Va ricordato – a conferma della correttezza dei compagni di Milano – che quando queste due circolari vengono inviate, ancora non sono stati resi noti gli atti processuali, gli avvocati difensori dei compagni non hanno ancora potuto incontrare i loro assistiti o prendere visione degli interrogatori da loro subiti. La situazione inizierà a cambiare veramente soltanto dopo la pubblicazione degli atti istruttori, quando sarà evidente che a parte parole e slogan, contro gli anarchici incarcerati non esiste neppure un briciolo di prova. Ma il danno è già fatto. Ci sono sempre quelli più realisti del re. Prendiamo il caso più noto, ma completamente ignorato dal Movimento anarchico e non indagato: stiamo parlando di un compagno di Canosa di Puglia, di Giuseppe (Peppino) Tota.

Il 22 dicembre 1969 viene fermato a Canosa di Puglia, assieme alla sua fidanzata, il giovane anarchico milanese Aniello D’Errico. Trasferito a Milano verrà sentito dagli inquirenti e subito rilasciato. Quello che non è noto all’epoca è come avviene il fermo. Due informative del SID, il servizio segreto, ci svelano le modalità di questo arresto.

1969 12 26 SID – fermo Aniello D’Errico e Gabriella Deghi

…. “D’ERRICO e la giovane, il mattino del 22 dicembre corrente, avevano chiesto ospitalità e rifugio al noto anarchico TOTA Giuseppe Gennaro fu Nicola, nato a Canosa di Puglia il 3.1.1924, dirigente del gruppo anarchico “Camillo e Giovanna Berneri, il quale per timore di incorrere in rigori di legge, ne ha informato il Pretore del Mandamento e questi il Commissario di P.S., che ha provveduto al fermo e successivo accompagnamento a Bari”

… Fiduciariamente si è appreso che il TOTA non conosceva il giovane anarchico, nè era stato in precedenza informato del suo arrivo.-

…La Questura di Bari, in sede di dichiarazione ai giornalisti, ha lasciato intendere che i due giovani sono stati scorti in Canosa da una pattuglia di agenti di P.S. e ciò al fine di cautelare l’informatore da eventuali rappresaglie.

Questa prima nota del SID ci rivela che non solo i servizi erano molto attenti a quello che accadeva a Canosa, ma che vi era un loro “fiduciario” in seno al Circolo anarchico. Di più, ci dicono che fu il Tota a denunciare la presenza del D’Errico a Canosa e consentire così il suo arresto. Le date qui sono molto importanti, tutto questo avviene dopo l’articolo del 20 dicembre di Umanità Nova. Interessante è anche la nota della Questura di Bari che parla di “cautelare l’informatore da eventuali rappresaglie”. Chi è questo informatore? E’ forse il Tota?

L’interesse del SID sul Tota non finisce qui. Nella seconda informativa del 17 febbraio 1970 (che riproduciamo quasi integralmente) si rileva che “Il noto Tota Giuseppe, dirigente del Gruppo “Camillo e Giovanna Berneri” di Canosa di Puglia (BA), ha subito una certa menomazione di prestigio nell’ambito anarchico pugliese a causa dell’avvenuto fermo dei giovani D’Errico Aniello e Deghi Gabriella, rintracciati da elementi della P.S. nella sua abitazione.

Il soggetto, anche a nome del Gruppo anarchico “Aurora”, al fine di dirimere dubbi e perplessità ha divulgato, in più riprese, volantini con i quali viene chiarito che:

– i due gruppi rigettano ogni responsabilità che gli organi inquirenti, Polizia e Magistratura, cercano di attribuire agli anarchici, attraverso presunte confessioni di altrettanto presunti anarchici i quali, altri non sono che strumenti nelle mani della Polizia, in quanto la strage di Milano e le bombe di Roma non potevano e non possono trovare giustificazione o determinare utilità al movimento anarchico nel suo insieme, né ad alcun gruppo o individuo;

– l’anarchico Giuseppe Pinelli non aveva motivi per suicidarsi in quanto fin dal momento del suo arresto ad oggi non è emersa nessuna prova a suo carico. Invece, risulto da testimonianze, che egli, al momento dello scoppio delle bombe si trovava in un bar a giocare a carte;

– il sedicente gruppo anarchico “Gli iconoclasti” di Milano i cui componenti erano Valpreda (detenuto), CLAPS più volte fermato e rilasciato e D’ERRICO anche questi fermato diverse volte (anche in relazione alle bombe del 25 aprile scorso) e rilasciato dopo aver reso confessione alla Polizia e il gruppo “22 Marzo” anch’esso definitosi anarchico ed operante a Roma, erano composti da pochi giovinetti irresponsabili e diretti da elementi staccatisi formalmente da formazioni neo-fasciste e neo-naziste. Entrambi i succitati gruppi non solo non furono mai ritenuti anarchici dai compagni di Milano e Roma, ma in diverse occasioni furono buttati fuori dalle sedi anarchiche perché ritenuti agenti provocatori;

– anche a Canosa di Puglia (BA) è stato orchestrato un tentativo (fallito miseramente) atto a coinvolgere, nell’alone dei dubbi e insinuazioni, gli anarchici canosini, con la presenza del ricercato D’ERRICO (anarchico “PUPO”) e della sua amichetta. Questo ragazzo ritenuto un elemento importante, appena arrestato è stato rilasciato. Il motivo può essere individuato nel fallimento dello scopo per il quale era stato mandato a Canosa; ……

Da questa seconda informativa si deduce, senza ombra di dubbio, che fu il Tota stesso a denunziare D’Errico (arrestato a casa sua, ma che la questura fece intendere di averlo fermato in strada) e che probabilmente l’”informatore” di cui si parla nelle veline, quello da “cautelare” sia proprio lui. Interessanti i riferimenti agli iconoclasti di Milano e al gruppo 22 Marzo. Questa velina, che sembra prendersi a cuore la “menomazione di prestigio” subita dal Tota, è estremamente precisa, fin troppo precisa, per non confermarci la presenza stabile di un collaboratore del SID tra gli anarchici canosini. A riprova del contenuto della nota pubblichiamo un volantino/manifestino stampato nel 1970 in cui sono praticamente riportate le stesse frasi che abbiamo trovato qui. Attenzione, questa nota è del 17 febbraio 1970, quando anche Umanità Nova aveva già iniziato a cambiare linea, e a difendere i compagni incarcerati! Come si sa, una volta sprigionato il veleno del sospetto, è difficile che le cose tornino come prima. Il voltafaccia – spudorato diremmo noi – di Tota avverrà qualche settimana dopo dove, come se nulla fosse, prende le difese di Valpreda e dei compagni del 22 Marzo, in un nuovo volantino.

Come abbiamo detto il Movimento Anarchico si divise fin da subito sulla posizione da prendere riguardo i compagni arrestati. Le “voci” su Valpreda ed il 22 Marzo che ormai circolavano in modo incontrollato nel movimento anarchico furono ampiamente utilizzate dagli apparati repressivi per cercare di isolare i compagni e stringergli il cappio al collo. La presa di posizione dei circoli anarchici milanesi a favore di Valpreda e la pubblicazione – dopo oltre 40 giorni – dei verbali degli imputati impressero la svolta. Ma una volta seminati i dubbi non è affatto facile cancellarli. Abbiamo visto come a Canosa potessero passare, senza autocritica e ritegno, da una posizione colpevolista e infame ad una posizione innocentista quasi da un giorno all’altro. Non sappiamo – per mancanza di documentazione – se e quanti altri gruppi abbiano seguito la “linea” portata avanti nelle prime settimane da Umanità Nova. Quello che sappiamo è che la cosa non si risolse in tempi brevi.

2019 11 11 Gli anarchici, il 22 Marzo e il 12 dicembre 1969 – di Enrico Di Cola (parte prima)

11 novembre 2019

12 dicembre 1969 scoppia una bomba a piazza Fontana a Milano provocando 16 morti. Un’altra bomba inesplosa viene trovata, sempre a Milano, in un’altra banca e viene fatta esplodere per eliminare ogni traccia che porti agli attentatori. Contemporaneamente esplodono altre 3 bombe a Roma. Nella notte tra il 15 dicembre ed il 16 il corpo dell’anarchico Pino Pinelli viene gettato dalla finestra della questura di Milano. Il 16 dicembre Pietro Valpreda viene arrestato per la strage di Milano. Per quella strage e quelle bombe verranno accusati e arrestati gli anarchici del gruppo 22 Marzo (Valpreda, Bagnoli, Gargamelli, Borghese, Di Cola) ed un compagno del circolo Bakunin di Roma (Mander). Nel circolo 22 Marzo erano infiltrati un fascista (Mario Merlino) ed un agente della squadra politica della polizia (Salvatore Ippolito). Molti anni dopo si scoprirà che a mettere quelle bombe furono i fascisti al soldo di vari servizi segreti (italiani e stranieri) sotto la regia di vari settori dello Stato (con complicità americana). Questa potrebbe essere la scaletta per ricordare i 50 anni da quella strage. Ma visto che siamo anarchici vorremmo invece concentrarci sulle reazioni del movimento anarchico di fronte a questo episodio delittuoso e sul rapporto fra lo stesso movimento e il 22 Marzo.

Probabilmente il 22 Marzo di Roma è il circolo anarchico di cui si è più sparlato e scritto in questi ultimi 50 anni. Anche alcuni studiosi anarchici si sono avventurati a scrivere, o descrivere, la storia di questo gruppo. Quanto scritto sino ad oggi è in realtà basato sulle voci che circolavano su di loro, su testimonianze terze rispetto a quell’esperienza, o addirittura sulla base di veline delle varie questure e dei servizi segreti.

Qui presenteremo per la prima volta una storia diversa, una storia di parte, la vera storia di questo gruppo. Una storia scritta direttamente da alcuni dei militanti del 22 Marzo.

Un’avvertenza prima di cominciare: è nostra intenzione raccontare – senza nessuna remora – quello che eravamo, quello che abbiamo detto e fatto, quello che abbiamo vissuto fino al nostro scioglimento coatto (galera o esilio), fino alle prime fasi processuali. Quindi solleveremo certamente alcune questioni che riguardano il movimento anarchico di allora, i nostri rapporti con questo, e come noi abbiamo vissuto quella situazione. Se non oggi, dopo 50 anni, quando dovremmo farlo sennò?

La storia del circolo 22 Marzo

La quasi totalità degli aderenti al 22 Marzo romano proviene dall’esperienza e dalle lotte del movimento studentesco nel biennio 1968-1969. Il nucleo più grande era formato da giovani compagni che frequentavano lo stesso istituto tecnico industriale, il Severi, dove avevano organizzato numerosissime manifestazioni e cortei e dove avevano dato vita ad una delle prime occupazioni di scuola a Roma. Erano anche attivi nei vari coordinamenti degli studenti medi–studenti universitari a livello di zona (Garbatella, Ostiense, San Paolo ecc) e aiutavano nei picchettaggi e scioperi le altre scuole di zona. Naturalmente partecipavano attivamente anche al coordinamento cittadino del movimento studentesco (con Architettura e Lettere in particolare). Le attività che si svolgevano erano davvero tante, dai volantinaggi alle stazioni degli autobus per gli operai pendolari per ottenere trasporti migliori a prezzi più bassi, alle attività di solidarietà con i lavoratori in lotta (Standa, Fatme ecc), comitati di occupazione delle case, manifestazioni contro la guerra in Vietnam e contro l’imperialismo americano. In pratica il gruppo era parte integrante del movimento studentesco romano.

Questo nucleo – di almeno una decina di persone già autorganizzate in gruppo informale nella scuola – incontra per la prima volta gli anarchici organizzati FAI/FAGI durante la manifestazione del Primo maggio 1969. Era la prima volta che i militanti di FAI/FAGI uscivano allo “scoperto” con un proprio spezzone e le proprie bandiere. Il circolo Bakunin di Roma stava per aprire o aveva appena aperto una sede ufficiale proprio in quel periodo. Prima di questo esisteva a Roma, in modo semiclandestino perché apriva raramente e perché frequentato prevalentemente da vecchi compagni dei GIA, il gruppo Cafiero – a Garbatella – con cui noi eravamo già in contatto attraverso alcuni nostri compagni di scuola di quella zona (Mattozzi).

Con questo nostro bagaglio culturale e di lotte ci avvicinammo al Bakunin, cioè ai giovani della FAGI, che come noi avevano avuto esperienze simili nel movimento studentesco e accusavano la FAI di essere immobilista, di non saper capire questo nuovo movimento di contestazione radicale della società.

Fin dal primo momento in cui ci avviciniamo al Bakunin, sentiamo che quell’abito ci va stretto. Nel circolo vigeva una ferrea divisione dei compagni in “simpatizzanti” e ‘’anarchici veri”, pratica non molto diversa da quella usata allora nei partiti. A nessuno di noi era consentito l’accesso alle chiavi del locale o al ciclostile e questo ovviamente non ci consentiva di riunirci a nostro piacimento. Il che creó immediatamente tensioni e dissapori. E quindi fin da subito, assieme ad alcuni compagni FAGI che poi formeranno con noi il 22 Marzo, facciamo scelte di attività politica che porteranno al distacco definitivo e alla creazione di un gruppo autonomo, il 22 Marzo.

Le attività

13 settembre ’69 Partecipazione alla stesura del volantino “Uniti contro la Repressione!!” in cui facciamo inserire, oltre alla richiesta di liberazione per gli occupanti delle case, anche quella dei compagni anarchici arrestati a Milano per le bombe alla Fiera. Il volantino è firmato “Lega dei Comitati di quartiere e dei Comitati di Base”, struttura in cui eravamo attivi. Siamo poi presenti in forze alla manifestazione davanti il carcere di Regina Coeli. Trattandosi di una manifestazione non autorizzata, Roberto Mander e Enrico Di Cola, a scopo di autodifesa, preparano le bottiglie per le molotov (senza inserire la benzina) da utilizzare in caso di necessità,

Il 25 settembre Valpreda, Claps e Di Cola iniziano uno sciopero della fame in solidarietà con i compagni arrestati a Milano. All’iniziativa aderiscono di fatto tutti i giovani del Bakunin, malgrado la contrarietà della Fai che però dopo tre giorni cede e mette la firma ai volantini che seguiranno.

7 ottobre a Colle Oppio lancio di una bottiglietta incendiaria da parte di Bagnoli e Merlino (con altri compagni) contro la sezione del MSI.

10 ottobre sostegno alle agitazioni contro gli sfratti degli inquilini delle case di proprietà della Società Immobiliare nella zona di Viale Eritrea. Assieme ad alcuni sfrattati Valpreda, Bagnoli, Di Cola, Gargamelli, Ferraro, Fascetti ed altri compagni entrano di notte nel palazzo e costruiscono un muro di mattoni davanti la porta degli uffici dell’Immobiliare e poi riempiono il pianerottolo e le scale di scritte.

23 ottobre volantino antimilitarista, contro le guerre (4 novembre = 2 novembre) a firma Gruppo Durruti e come indirizzo (per i contatti) quello del Bakunin. Quelli del Bakunin ritengono il contenuto del volantino (stampato presso i radicali) scorretto e provocatorio e impongono sia tolto il loro indirizzo. Prendono i volantini e strappano la striscia finale togliendo ogni riferimento al Bakunin. Così facendo rendono il volantino completamente illegale, togliendo anche dove era stato stampato. Il volantino sarà ugualmente distribuito dai compagni.

23 ottobre intervista collettiva a Ciao2001. In realtà si tratta di un documento scritto ed elaborato collettivamente. Ci firmiamo 22 Marzo, ma in realtà non avevamo ancora deciso il nome da darci. Si trattò di un espediente per farci pagare l’intervista e avere i soldi per aprire una sede nostra. E così avviene la scissione dal Bakunin.

25 ottobre Valpreda, Bagnoli, Di Cola e Muki raggiungono in autostop Reggio Calabria per solidarizzare con i compagni Casile, Aricò ed altri sotto processo in quella città. Il giorno dopo il processo, che vide i compagni assolti, gli stessi quattro partecipano alla manifestazione degli edili (dove verranno puntualmente fotografati e schedati dalla polizia).

29 ottobre A Pisa, durante una manifestazione, la polizia spara ad altezza d’uomo uccidendo con un candelotto lo studente Cesare Pardini. I compagni Di Cola, Bagnoli e Valpreda si recano a Pisa dove si incontreranno con uno dei dirigenti del gruppo Il Potere Operaio pisano.

1 novembre Da Pisa si spostano a Carrara per il convegno FAGI. Qui assieme a moltissimi altri compagni di tutta Italia “occupano” i locali del Germinal per poter dormire. La mattina seguente compiono un’altra “provocazione”: dispongono le sedie in cerchio, togliendo il palco oratori.

2 novembre da Carrara i 3 compagni si recano al convegno dei GIA.

15 novembre In occasione della manifestazione per il Vietnam a Roma ci si organizza per la prima volta in modo collettivo. Ci dotiamo di bandiere e bastoni per il nostro servizio d’ordine. Affrontiamo il tema della autodifesa nelle manifestazioni: nessuno deve rimanere isolato, il gruppo deve rimanere sempre unito, ci si deve proteggere a vicenda. A piazza Esedra la polizia finge una carica per impedire al corteo di raggiungere l’ambasciata americana. Fuggono tutti tranne il nostro gruppo che rimane compatto in mezzo alla piazza. Sciolta la manifestazione alcuni di noi si incontrano con compagni del movimento studentesco e si decide di andare a colpire, dove possibile, obiettivi americani, filo atlantici o di destra. Di Cola e Mander lanciano dei sampietrini alla 3M di via Nazionale rompendone le vetrine.

19 novembre Sciopero generale per la casa. La mattina la questura effettua un fermo preventivo dei compagni del 22 Marzo, circa una decina, trovati nei locali di via del Boschetto, nel laboratorio di lampade liberty di Valpreda. Il gruppo si era riunito per decidere sulla partecipazione o meno al corteo. Veniamo rilasciati al termine della manifestazione. La sera stessa, a Trastevere, siamo aggrediti da un gruppo di fascisti. Valpreda, Gargamelli e Di Cola vengono arrestati e portati al carcere di Regina Coeli.

27 novembre Valpreda scrive una lettera all’avv. Boneschi (di Milano) comunicandogli che sospettiamo ci sia una spia nel nostro gruppo. Nel frattempo Di Cola ed alcuni compagni fidati della sua scuola, conosciuti da tempo, stilano una lista con tre nomi di sospettati su cui indagare: Merlino, Ippolito e un terzo, che poi risulterà del tutto estraneo alla vicenda.

A fine novembre si aprono i locali del 22 marzo a via del Governo Vecchio.

La vera storia degli infiltrati

Sicuramente già dal maggio 1969 il poliziotto Salvatore Ippolito (in arte Andrea Politi) inizia a frequentare il circolo FAI/FAGI Bakunin di via Baccina. Ufficialmente, dice la polizia, per seguire i passi di Ivo Della Savia su richiesta dell’Ufficio Politico di Milano (in realtà all’epoca Della Savia frequentava molto raramente il Bakunin).

A settembre, dopo una manifestazione studentesca, un gruppo di studenti si riunisce al Bakunin per discutere su come portare avanti le lotte studentesche. Tra quelli che si incontreranno al Bakunin compare per la prima volta il fascista Mario Merlino.

Anche la maggior parte dei compagni che formeranno il 22 Marzo inizia a frequentare stabilmente il Bakunin solo verso la fine di settembre, dopo lo sciopero della fame. E’ quindi evidente che queste due spie erano già infiltrate nel Bakunin, e questo prima ancora di un qualsiasi progetto di creazione di un gruppo separato dalla FAI/FAGI.

Riguardo al poliziotto Ippolito, c’è da dire che Aldo Rossi confidò al compagno Enrico Di Cola – che durante la sua latitanza, poco prima di lasciare l’Italia fu suo ospite – che loro del Bakunin lo avevano già identificato ma non era stato allontanato perché in questo modo sapevano chi era la spia e quindi potevano controllarlo. Peccato che questi loro sospetti li rivelarono dopo il 12 dicembre e non prima, altrimenti almeno un infiltrato avremmo potuto evitarlo.

Merlino invece non faceva mistero del suo ‘’passato’’ di ex fascista. All’epoca ’68-’69, non era affatto infrequente trovare tra le fila del movimento studentesco ex fascisti sinceramente convertiti (anche se certamente vi erano molti provocatori che cercavano di infiltrarsi, riuscendoci, anche in formazioni marxiste-leniniste). Persino il professore all’Università Marcello Lelli (all’epoca dirigente FGCI/PCI) interrogato da Cudillo dirà: “Ho conosciuto Merlino Mario alla scuola Media “Daniele Manin” in quanto abbiamo frequentato le stesse classi. Successivamente ho nuovamente incontrato il Merlino nel corso degli studi universitari, ma non siamo mai entrati in contatto perché militavamo in opposte organizzazioni politiche: il Merlino faceva parte di una organizzazione di destra ed io di sinistra. Nel 1969 poiché il Merlino era entrato a far parte del movimento studentesco, ci siamo incontrati molte volte ed abbiamo scambiato qualche idea o parola”.

Visto che dopo 50 anni ancora molti anarchici seguitano a sostenere che l’infiltrazione di un fascista nel 22 Marzo era dovuta alla nostra forma organizzativa e alla nostra “ingenuità”, crediamo sia utile sottolineare il caso di Pasquale Masciotra.

Leggiamo da Umanità Nova, n 20 del 4 giugno 2006, anno 86 il necrologio intitolato “Ricordando Pasquale Masciotra”. “Ci ha lasciato, all’età di 60 anni, il compagno Pasquale Masciotra di Isernia. Aveva iniziato la sua militanza anarchica da studente universitario di medicina, a Roma, dopo perigliose quanto fugaci frequentazioni dell’effimero gruppo XXII marzo. Si era avvicinato al movimento attraverso “Umanità Nova” (settimanale a cui darà per lungo tempo la sua collaborazione) aderendo quindi alla FAI sull’onda montante del ’68 e della controinformazione sulla “strage di stato”. Nei primi anni Settanta si trasferisce a Firenze per proseguire gli studi. Nel capoluogo toscano partecipa all’attività del “Durruti” e, insieme ad altri compagni, fonda nel 1973 il gruppo anarchico di discussione “Autogestione“.

La militanza fascista di Masciotra è attestata dal fatto che il suo nome compare in diversi elenchi di fermati durante manifestazioni dell’estrema destra nel 1968 insieme a quelli di Merlino e di altri noti fascisti quali Adriano Tilgher e Stefano Delle Chiaie.

Da quanto si legge nel necrologio, il percorso di Masciotra appare identico a quello di Merlino, entrambi apparentemente fulminati sulla via di Damasco del ’68. Uno entra nel nascente 22 Marzo e l’altro, probabilmente più o meno nello stesso periodo, viene accolto nel Bakunin di Roma. Con questo non vogliamo dire che Masciotra fosse un infiltrato, vogliamo solo sottolineare che, indipendentemente dalla forma organizzativa del gruppo, in quel periodo era considerato credibile che qualcuno nel giro di pochi mesi si convertisse dal fascismo all’anarchismo.

Dunque che nessuno ci venga a rompere ancora le palle su questa storia della facilità con cui ci si poteva infiltrare nel nostro gruppo! Masciotra inoltre entrò tra gli anarchici della FAI in un momento in cui la “vigilanza” era quasi ossessiva tra i compagni (basti ricordare la rubrichetta Attenti a costui che si pubblicava su Umanità Nova per denunciare chiunque potesse essere anche lontanamente sospetto). Peccato Masciotra sia morto altrimenti avremmo voluto chiedergli quando rivelò ai compagni il suo oscuro passato e perché fu subito creduto.

2019 10 27 Alcune precisazioni e note al libro Carte di Gabinetto di Giorgio Sacchetti. di Enrico Di Cola

27 ottobre 2019

Pag 137 Anche per le bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera di Milano, che causano feriti non gravi, sono accusati gli anarchici; segue immediatamente una campagna di mobilitazione promossa da «Umanità Nova» e da «L’Internazionale», con scioperi della fame e proteste clamorose, per reclamare l’innocenza degli arrestati (che poi saranno assolti). A Roma 55 sono particolarmente attivi il gruppo «Michele Bakunin» della FAI e l’Associazione giuristi democratici che operano con la collaborazione di PSIUP, Partito Radicale e Lega per i diritti dell’uomo. Ma non mancano le iniziative spontanee e individuali.

Crediamo che stabilire alcune verità – una volta per tutte – sia di grande utilità per i compagni anarchici. Quanto sostiene Sacchetti non corrisponde a quanto realmente avvenuto. Gli anarchici del Bakunin erano contrari all’idea di uno sciopero della fame a Roma quando Valpreda e Claps lo proposero. Enrico Di Cola aderì subito all’iniziativa così come fecero molti altri compagni che si associarono per dare supporto durante lo sciopero della fame (quasi tutti poi formarono il 22 marzo). La prova di questo è anche nei due volantini sequestrati dalla polizia durante lo sciopero della fame: il primo reca come firma un semplice “Gli anarchici” e “ciclostilato in proprio” mentre il secondo – tre giorni dopo – reca la firma Bakunin e l’indirizzo di dove era stato ciclostilato.

Praticamente tutti i giovani della FAGI avevano deciso di sostenere in un modo o nell’altro quest’iniziativa, ciò costrinse i più anziani della FAI a rivedere le proprie posizioni

Anche i rapporti con l’associazione giuristi democratici, Lega per i diritti dell’uomo e partito radicale erano tenuti da tempo da alcuni compagni del futuro “22 marzo” (ricordiamo che proprio la sera del 12 dicembre Di Cola, Bagnoli e Mattozzi si erano recati nella sede dell’Associazione per denunciare la persecuzione poliziesca a cui erano costantemente sottoposti i compagni).   Il Bakunin inizia questi rapporti dopo il 12 dicembre.

Questa precisazione è necessaria non tanto per aprire sterili polemiche a 50 anni dai fatti, ma perché riteniamo sia giunta l’ora di dare una visione più completa e corretta di come agivano politicamente i compagni che formeranno poi il “22 marzo” e il perché frizioni all’interno del Bakunin – sul modo di condurre le lotte – fossero già presenti molto prima della rottura definitiva.

Pag 138-139In ambito libertario si inasprisce ulteriormente lo scontro tra generazioni. I giovani spingono per inserirsi a pieno titolo nel grande movi­mento di rivolta in atto in Europa. La FAGI contesta in modo aperto gli «anziani» minacciando addirittura di staccarsi dalla Federazione qualora non si converta ad una linea più rivoluzionaria, e criticando la «prudente» gestione redazionale del giornale «Umanità Nova». La FAI risponde da una parte riconoscendo l’esigenza del rinnovamento, dall’altra mettendo in guardia le strutture federali dalle possibili infiltrazioni di provocatori prezzolati e «dinamitardi da strapazzo».

All’attenzione del ministro Restivo pervengono dettagliate relazioni su due eventi: una riu­nione nazionale della FAGI tenutasi a Roma presso il circolo «Bakunin» di via Baccina, al civico 35, il 19 ottobre 1969; un convegno straordinario della FAI svoltosi a Carrara ai primi di novembre. Sul primo appuntamento il capo della polizia riferisce al ministro della presenza di una ventina di delegati provenienti, oltre che dalla capitale, da Milano, Cosenza, Reggio Calabria, Firenze, Lucca, Napoli e Savona, mentre al­lega alla sua nota riservata copia del documento approvato (battuto a macchina in carta riso ed evidentemente prelevato dall’informatore a fi­ne riunione). La mozione, nel confermare la linea critica nei confronti della FAI, auspica che si trovi «un metodo organizzativo ed un comune programma politico minimo per gli anarchici che credono nel comuni­smo anarchico». E conclude: «Qualora non saranno raggiunti tali obiettivi la FAGI si staccherà dalla FAI» 60.

Pochi giorni dopo, a Carrara, nei saloni del Germinal la locale prefettura individua tra i partecipanti al convegno una quarantina di persone provenienti da fuori (fra cui una cittadina argentina)…. 61

Nota 60 AARR 8 novembre 1969 busta FAI. Nel medesimo periodo e negli stessi locali la rivista giovanile “Ciao 2001” n. 43 del 19 novembre 1969, realizza e pubblica una Intervista al Circolo 22 Marzo, con servizio fotografico (40.000 lire il compenso accordato). Un’informativa dei servizi parla impropriamente di “scissione dalla FAGI” promossa da Mario Merlino e dai dissidenti del “22 Marzo” allo scopo di contrastare il “burocratismo” di militanti “obbedienti alla FAI” come Raniero Coari e Attilio Paratore. Cfr. Questura Roma, Uff Pol, Appunti Spinella su scissione FAGI del Bakunin di Roma (fonte Ippolito) n 27 ottobre 1969 (riprodotta dal nostro blog).

nota 61 Prefettura Massa Carrara 5 novembre 1969

Alla riunione della FAGI partecipa come ospite Emilio Bagnoli che, subito dopo aver presentato le posizioni del gruppo “22 Marzo”, abbandona i lavori (al momento di tale riunione avevamo già iniziato da tempo ad incontrarci in altri luoghi). La velina della questura quindi non può essere ascrivibile a Merlino o alla spia Ippolito – che non potevano essere presenti a tale incontro – è altresì evidente che fosse presente almeno una spia/infiltrato non ancora identificata in qualche altro gruppo anarchico partecipante alla riunione. Questo dimostra che nonostante le critiche che la FAI/FAGI rivolgevano contro di noi all’epoca, loro non erano certamente più impermeabili di noi in quanto ad infiltrati/provocatori nonostante la “forma organizzativa” da loro tanto decantata.

Controprova di tale fatto è la nota sul convegno di Carrara della Questura di Roma, (vedi nota 61) che presenta i fatti in modo straordinariamente preciso e che dimostra anche una piena conoscenza delle varie posizioni interne al movimento anarchico.

Molti seguitano a parlare, ancora oggi, dei nostri dissidi con la FAI, mi chiedo come mai nessuno abbia prestato la debita attenzione alle parole conclusive del documento dei gruppi FAGI, cioè quel “Qualora non saranno raggiunti tali obiettivi la FAGI si staccherà dalla FAI”, che stanno li a dimostrare che non eravamo certamente i soli a fare forti critiche all’immobilismo della FAI sulla questione studentesca. Probabilmente anche tra gli anarchici c’è ancora una sorta di opportunismo politico sulla nostra vicenda: dopo averci isolati all’epoca non si vogliono ancora oggi ammettere gli errori compiuti contro il nostro gruppo. Errori puntualmente utilizzati dalla polizia, magistratura e stampa per poterci criminalizzare e mettere un cappio al collo.

Vorremmo chiarire una volte per tutte anche la questione riguardante l’intervista al “22 Marzo” da parte della rivista Ciao2001: “L’intervista” venne tenuta nei locali della rivista Ciao2001 e non nei locali del Bakunin come si può facilmente dedurre dai verbali di polizia. Solo una foto utilizzata nell’articolo era stata scattata mesi prima da un compagno (Mino) nel piano superiore del Bakunin. Quando fu fatta quella foto non esisteva ancora neanche un’idea di un gruppo “22 Marzo”!

In realtà è anche sbagliato parlare di “intervista” (sia che si fosse tenuta nei locali del Bakunin, che nei locali della rivista Ciao2001). Perché – tranne un’unica domanda -, quella se era vero che gli anarchici mettono le bombe (siamo dopo gli attentati del 25 aprile e della Fiera campionaria a Milano) che serviva a “legare” l’intervista all’attualità, noi presentammo un documento – scritto e approvato da noi del “22 Marzo” durante alcune riunioni tenute in diversi luoghi (sicuramente non al Bakunin!) – e che rimane ad oggi il nostro “testamento politico”. Quindi non vi fu nessuna intervista ma una chiacchierata mentre si prendevano le foto del nostro gruppo. Il testo pubblicato è quello integrale del nostro documento, senza alcuna modifica o aggiunta, come era da noi stato concordato con il giornale.

Sarebbe utile mettere a fuoco anche un’altra questione: la velina di polizia di cui si parla sembra essere più una “messa a punto” della trappola che doveva scattare per seppellirci vivi in carcere che una nota (ma come potrebbe essere altrimenti di cose scritte da luride spie) su quanto realmente accaduto. Basterebbe leggere le veline precedenti per capire che già prima dell’arrivo di Merlino vi erano dei dissapori/divergenze politiche tra noi giovani ed i compagni del Bakunin. Merlino non promosse nessuna scissione, sia perché noi eravamo considerati semplicemente dei “simpatizzanti” (uno dei motivi dei nostri dissapori) e quindi non facevamo parte del Bakunin e sia perché di fatto già da tempo avevamo deciso che la “convivenza” con il Bakunin non faceva per noi e quindi avevamo concordato di trovare un altro luogo di incontro per poter agire in totale indipendenza.

Pag. 141 Una virulenta campagna della stampa tende a rappresentare gli anarchici come criminali terroristi. Questa però è controbilanciata da un certo interesse del mondo accademico universitario e degli intellettuali per le vicende storiche e attuali del movimento libertario italiano e internazionale. In tal senso la Fondazione Einaudi promuove con l’università di Torino un importante convegno di studi, cui partecipano studiosi europei ed americani, su Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo -, l’iniziativa – che si tiene proprio nei giorni a ridosso della strage di Milano – non manca di suscitare l’attenzione degli organi di polizia che operano in Italia e all’estero64. Il controllo di polizia sui sovversivi e sugli oppositori si attua intanto anche con le «schedature parallele» 65.

Trovo difficilmente sostenibile questa tesi. Quello che avveniva al chiuso delle Università, nel dorato mondo degli intellettuali, si rivolgeva solo a pochi eletti e dentro questo mondo ristretto restava. Sicuramente il mondo dei media non ne fu minimamente influenzato, altrimenti sarebbe difficile capire come questi potessero arrivare a livelli così estremi di violenza, di macchina del fango così efficiente, nella fabbricazione del mostro Valpreda.

Vero è che si è sulla scia del ’68 e quindi le forme di lotta di quegli anni (anche violente), le modalità (assemblee generali) di organizzazione e di presa delle decisioni, gli slogan (molto virulenti), ecc. avevano incuriosito alcuni settori di intellettuali illuminati, che sentivano il bisogno di capire quali esigenze, quali bisogni manifestasse quel movimento.

Il libro cita in modo troppo riduttivo, quasi di passaggio, il ruolo svolto dall’ “anarchico” spia e provocatore al soldo degli Affari Riservati Enrico Rovelli. Questo “anarchico” giocò un ruolo fondamentale nella creazione dei mostri anarchici, ruolo che porterà avanti anche negli anni seguenti al 12 dicembre 1969. E’ lui che contribuisce assieme alla Zublena ad incastrare gli anarchici di Milano (bombe ai treni), così come sono le sue confidenze a permettere agli affari Riservati di creare la pista Pinelli-Valpreda per gli attentati di Milano.

Altro limite del libro è quello del poco utilizzo delle veline dei servizi e quindi del ruolo giocato dal SID, a cui sembra assegnarli un ruolo di semplice comparsata, relegandolo al solo compito di depistaggio.

Seppure sia certamente vero che esistesse una forte rivalità tra i due corpi dello Stato (il SID prevalentemente formato da carabinieri e quindi legato al ministero della Difesa, gli AARR legati al ministero degli Interni) ritengo sia facilmente intuibile che un’operazione della portata di quella come la strage di piazza Fontana non potesse essere portata avanti e posta in essere senza una stretta alleanza operativa, senza una collaborazione tra i due servizi segreti. Anche perché il SID era attento osservatore di tutto quello che si muoveva sia a destra che a sinistra tramite una fittissima rete di spie e infiltrati.

Ho testimoniato più volte (fin da subito) sul mio fermo la notte del 12 dicembre e sulle pressioni e minacce di morte che mi vennero fatte a partire dalla mattina del 13 dicembre per farmi firmare un verbale che dicesse che Valpreda era partito per Milano con una scatola da scarpe piena di esplosivo. Nel fare queste pressioni i carabinieri si lasciarono sfuggire di bocca un particolare sulla partenza di Valpreda per Milano che a me in quel momento non era noto (ma che constatai essere vera una volta rilasciato). Quindi la volontà dei carabinieri – già il 13 dicembre – di farmi accusare Valpreda di essere partito da Roma con l’esplosivo usato per gli attentati di Milano, e il particolare sulla partenza di Pietro (o la questura romana gli aveva passato le informazioni oppure eravamo pedinati anche dai servizi segreti) non possono essere considerati delle mere coincidenze (ricordiamo che ufficialmente la questura romana chiese il fermo di Valpreda solo il 14 dicembre): è evidente che anche i carabinieri – quindi il SID, – che mi interrogavano dovevano essere a conoscenza dei particolari sulla strage e quindi erano parte attiva del complotto che si stava chiudendo su di noi.

Pag 142 (nota 68) Per gli attentati romani i primissimi fermi riguardano: Domenico Pesce, Giovanni Aricò, Stefania Grignani, Annelise Borth, Mario Merlino, Roberto Mander, Angelo Casile e Emilio Borghese «tutti appartenenti ai circoli Bakunin e 22 Marzo». Cfr. Questura di Roma, nota 0654J7/UP per la Procura della Repubblica (dott. Occorsio), 14 dicembre 1969, in blog Associazione «P. Valpreda» https://stragedistato.wordpress.com/2012/01/ 14/atti-processuali/

Onde evitare confusioni precisiamo che Pesce e Grignani non facevano parte di nessun gruppo ma erano solamente amici di Aricò che, come tutti sappiamo, era un anarchico calabrese e non romano, così come Casile. Va anche sottolineato che questa era la lista della questura, per cui mancano i nomi dei compagni fermati dai carabinieri .