Alla luce del progetto politico che sta dietro la strage di Milano, si capisce appieno anche l’incriminazione dei parenti di Valpreda, i quali dopo aver affermato per due mesi la stessa coerente versione, ora vengono improvvisamente incriminati per falsa testimonianza; in questo senso si può addirittura spiegare (se non fosse, per la sua ridicolaggine, al di fuori di ogni logica) anche la storia del vetrino giallo, anzi verde, come correggono dopo alcuni giorni gli inquirenti. Da questa borsa dei miracoli potrebbe ormai saltare fuori anche un cadavere tagliato a pezzi o un coniglio e non ci stupiremmo più di tanto, dopo che è stata abilmente fatta saltare fuori (col vetrino) persino la «firma» di Valpreda e la sua confessione. Certo che l’organizzatore di questo complotto lucido e perfetto è davvero un ingenuo e uno sprovveduto se dimentica un suo strumento di lavoro, un suo oggetto personale e caratteristico, dentro la borsa con cui trasporta le bombe. Sarebbe in definitiva come se un generale che va a rubare galline dimenticasse il carrarmato nel pollaio. E pensare che i compagni anarchici possano essere più stupidi dei generali è davvero un po’ troppo. Senza considerare poi il fatto che, secondo quanto dice l’informatissimo «Corriere», del vetrino se ne parla per la prima volta nell’interrogatorio del 27 gennaio; e in tutto questo periodo (dal 12 dicembre al 27 gennaio) che cosa ha combinato il vetrino? Era forse nascosto nelle capaci pieghe della borsa? E questa borsa poi che per 4 ore è stata agitata, sballottata, scossa, esaminata all’interno della Banca Commerciale da impiegati curiosi che volevano ascoltare il ticchettio… certo non sarebbe stato troppo difficile nascondere non uno ma decine di vetrini dentro la borsa … (e che qualcuno l’abbia fatto sul serio ne siamo certi, e non certamente Valpredra o Sottosanti).
Intanto il capitano Varisco viene mandato in giro per l’Italia – a recapitare plichi segreti – dicono; e già che c’è, ne approfitta per fare due visite in più, la prima al consigliere istruttore Antonio Amati, la seconda, pare, in Friuli. Ad Amati dispiaceva sinceramente di essere stato tagliato fuori, sinora, dall’inchiesta. Lui è un esperto in attentati, sa tutto, sa forse quasi di più di Calabresi, tant’è vero che è stato lui il primo, nel tardo pomeriggio del 12, a telefonare in questura (forse puntava sulla taglia) per suggerire la pista degli anarchici. E quindi ora in una maniera o nell’altra vuole riaffermare il suo diritto a partecipare all’«inchiesta del secolo». E c’è riuscito; in quanto dirigente dell’ufficio istruzione poteva avocare a sé l’istruttoria milanese e si è affrettato a farlo; sarà lui quindi ad interrogare i parenti di Valpreda. Amati comunque ha parlato con Varisco; gli avrà proposto (è una sua specialità) una testimone segreta? Una che potrebbe affermare che Valpreda il giorno 13 non solo si trovava a Roma al bar Jovinello, ma magari contemporaneamente a Taormina e a Domodossola a parlare del più e del meno, di tritolo e di commedie musicali, di attentati e di danza classica.
Ma il capitano Varisco è andato anche fino a Udine e pure questo è perfettamente spiegabile. Il 30 o il 31 ottobre del 1969 in un bosco alla periferia di Forni di Sopra in provincia di Udine fu scoperto il cadavere di un giovane colpito alla fronte da un proiettile d’arma da fuoco. Addosso al morto i carabinieri rinvennero un solo documento: un foglio di congedo intestato a Piero Rossi, universitario ventinovenne nato a S. Giuliano Terme (Pisa) e domiciliato alla casa dello studente di Milano. Ma dopo alcuni accertamenti si scoprì che lo studente Piero Rossi (che era stato tra gli occupanti dell’ex Hotel Commercio) era vivo e non era in grado di spiegare come mai il suo documento fosse finito addosso a un cadavere. Passò un po’ di tempo e si riprese a parlare di questo cadavere quando il democristiano Lorenzon affermò di aver sentito il suo ex amico Ventura, (editore neonazista) attribuire la uccisione del giovane ad agenti del SID. Il capitano Varisco potrebbe quindi avere tra i suoi compiti quello di approfondire le indagini su questo delitto (o forse quello più credibile, di chiudere completamente il caso). È certo comunque che elementi interessanti potrebbero saltare fuori; basta considerare le rivelazioni fatte da Lorenzon per rendersene conto: «Sì, Ventura mi ha detto di essere stato uno degli organizzatori e dei finanziatori degli attentati sui treni, la notte tra 1’8 e il 9 agosto». E ha aggiunto questi particolari: che a dare i soldi e a curare il piano erano stati lui e altri due; che in complesso aveva operato un gruppo di nove persone; che parecchie di queste persone non avevano neppure il denaro per le spese di viaggio; e che tutto, bombe e rimborsi spese, gli erano costati centomila lire per attentato. Ventura mi confidò che prima degli attentati di Milano lui aveva parlato di bombe da piazzare in quella città con una persona che io non conosco». Così senza che la polizia faccia il minimo sforzo e la minima indagine, la verità sul terrorismo in Italia comincia ad emergere, ed emergono anche con estrema chiarezza e precisione nomi, complicità, prove. Basterebbe volerle leggere e collegarle e quello che è l’apparato finale e materiale della «strategia del tritolo» potrebbe essere tutto definito e individuato. Ma questo naturalmente non lo si vuole fare, perché scoprire gli esecutori vuol dire suggerire i mandanti, e a questo punto il gioco potrebbe diventare fastidioso. La gente vorrebbe saperne qualcosa di più e farebbe domande, farebbe le sue inchieste, e la cosa si rivelerebbe estremamente pericolosa per questa loro «democrazia», fondata sulle bombe e sui servizi segreti.
24 cantanti denunciati e prosciolti
Quando nel Palazzo di Giustizia, durante il processo contro Bellocchio, cantavamo la Ballata di Calabresi (già Ballata di Pinelli) eravamo coscienti di «diffamare» almeno tre persone (per la precisione Luigi Calabresi, Marcello Guida, Sabino Lo Grano), in quanto molto semplicemente le accusavamo di omicidio e affermavano che erano state loro tre a far cadere Pinelli dalla finestra del quarto piano della questura. E anche se questa è la verità, se non è almeno Giorgio Bocca a confermarlo, sempre di «diffamazione» si tratta.
Ma non pensavamo certo di fare una «radunata sediziosa» dal momento che «non è punibile chi, prima dell’ingiunzione dell’autorità, o per obbedire ad essa, si ritira dalla radunata» (art. 655 C.P.); e questa ingiunzione non c’è mai stata. Comunque è per «radunata sediziosa» che siamo stati denunciati.
La cosa non ci dispiaceva tanto, in definitiva; era forse l’occasione per dire apertamente in un tribunale chi sono gli assassini di Pinelli. Questo deve averlo pensato, però, anche il pretore Letterio Cassata, che ci ha prosciolto in istruttoria. Ma non finisce qui.