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27 ottobre 1975 Sentenza GI Gerardo D’Ambrosio su morte Giuseppe Pinelli – Le 19 pagine della vergogna!

17 aprile 2013

Il Giudice Istruttore presso il Tribunale Civile e Penale di Milano ha pronunciato la Seguente SENTENZA nel procedimento.
contro
1) CALABRESI Luigi, nato a Roma il 14-11-1937. Elett.dom.pr.st.avv. Michele Lener, Galleria del Corso, 1 – Milano.
2) LOGRANO Savino, nato a Spinazzola (BA) il 16-1-1940, res. a Torino in via Padova, 33. Elett.dom.pr.st.
(Elettivamente domiciliato presso studio n.d.r.) avv. Armando Cillario, Corso Porta Vittoria, 31 – Milano.
3) PANESSA Vito Donato Antonio, nato a Gioia dei Colle (BA) il 20-4-1927, dom. a Milano in via Fatebenefratelli, 11.
Elett.dom.pr.st.avv. Vincenzo Garofalo, Corso Matteotti, 1 – Milano.
4) CARACUTA Giuseppe Antonio, nato a Martano (LE) l’1-5-I935, res. a Bari in via Cagnazzi, 53. Elett.dom.pr. st.avv.
Vincenzo Garofalo, Corso Matteotti, i – Milano.
5) MAINARDI Carlo Mario, nato a Rosasco (PV) il 26-12-1922, dom. a Milano in via Fatebenefratelli, 11. Elett.dom.pr. st.avv.
Vincenzo Garofalo, Corso Matteotti, 1 – Milano.
6) MUCILLI Pietro, nato a Castiglione Messer Marino (CH) il 6-10-1927, res. a Milano in via delle Genziane, 5.
Elett.dom.pr.st.avv. Vincenzo Garofalo, Corso Matteotti, 1 – Milano.
7) ALLEGRA Antonino, nato a S. Teresa di Riva (ME) il 21-11-1924, res. a Milano in via delle Ande, 14. Elett. dom. pr. st.
avv.prof. Alberto Crespi, via Verga, 14 – Milano.
8) SMURAGLIA Carlo, nato ad Ancona il 12-8-1923, res. a Milano in Piazza Belgioioso, 1.

 

27 ottobre 1975 Sentenza GI D’Ambrosio su Giuseppe Pinelli

 

Lotta Continua 1 ottobre 1970 Calabresi, un assassino.

27 settembre 2012

Lotta Continua 1 ottobre 1970 vignetta contro Calabresi

Forse abbiamo fatto un errore: siamo stati troppo teneri col commissario aggiunto di P.S. Luigi Calabresi, abbiamo permesso che su di lui si ridesse, si ammiccasse, nascesse il luogo comune, si sviluppasse l’ironia; abbiamo consentito che la cosa venisse scambiata per un gioco duro, magari, ma divertente nonostante tutto. E questo è un male, perché qualcuno ha forse potuto pensare che si trattasse di uno scherzo; e lo deve aver pensato anche Luigi Calabresi, perché altrimenti non si sarebbe permesso di fare quello che invece ha fatto; il fatto di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di girare indisturbato per Milano, di continuare a perseguitare i compagni e proteggere i suoi complici; il fatto, infine, di aver querelato per tre volte «Lotta continua». Facendo questo però si è dovuto scoprire; il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato ad odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse, che hanno incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome e cognome e indirizzo. E questo è importante e utile. E il primo risultato è che ora verrà trascinato in un’aula del tribunale a rispondere del suo delitto. E’ chiaro a tutti infatti, che non sarà certo «Lotta continua» a sedersi sul banco degli imputati, a giustificarsi per averlo diffamato, ma sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli, e Calabresi dovrà pagarla cara,

Anche su questo terreno infatti, gli sfruttati dimostrano, giorno dopo giorno, di voler passare, senza più indugi e ritardi, dall’urna della critica (e dell’ironia e della vignetta) ad una critica più radicale e definitiva, che si esprima attraverso la capacità del proletariato di utilizzare la violenza di massa contro i propri nemici e per la propria liberazione. E la violenza di massa è oggi strumento di attacco, mezzo con cui gli sfruttati fanno giustizia e amministrano la propria legge: l’unica, che in quanto appartiene al popolo, è giusta e rivoluzionaria.

Siamo in una fase in cui queste parole non sono più frasi vuote ed astratte, ma entrano concretamente e materialmente a far parte dell’esperienza di lotta e di organizzazione del proletariato. E se l’esecuzione del poliziotto torturatore Dan Mitrione da parte di un tribunale rivoluzionario, può essere relegata e dimenticata dai borghesi e da tutti i legalisti come episodio « esotico e selvaggio» di un paese lontano, la cattura e la punizione dei fascisti di Trento da parte dei proletari in lotta, è per i nostri nemici qualcosa di più di un avvertimento; è la realtà concreta, vicina, palpabile di ciò che li aspetta, di ciò a cui vanno incontro. La gogna dei sicari a Trento e l’esecuzione di Dan Mitrione non sono episodi diversi, uno «antifascista e italiano», l’altro «banditesco e terzomondista»; sono fasi successive di un processo unico: quello dell’emancipazione del proletariato, che passa necessariamente attraverso la soppressione dei nemici di classe. Il fatto che oggi in Italia la prima di queste fasi sia già praticabile e attuata, ha messo giustamente paura alla borghesia; la fase dell’esecuzione materiale della giustizia proletaria (che avvicina anche i tempi della lotta armata) forse non è ancora imminente. Ma è certamente già prevedibile.

E’ per questo motivo che nessuno (e tanto meno Calabresi) può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce. Siamo riusciti a trascinarlo in tribunale e questo è certamente il pericolo minore per lui, ed è solo l’inizio. Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze, alle nostre lotte; alle nostre idee e non è certamente dalla legge dello stato capitalista che ci attendiamo la punizione di un suo servo zelante; non dai giudici «progressisti ed onesti»; non da un dibattimento i cui codici, norme e regole, create dalla borghesia per controllare gli sfruttati, non possono essere utilizzati dai proletari, ma solo da questi distrutti.

Ma dentro l’aula della prima sezione, dentro il tribunale, attorno ad esso, nelle strade e nelle piazze, il proletariato emetterà il suo verdetto, la comunicherà e ancora là nelle strade e nelle piazze, lo renderà esecutivo. Calabresi ha paura, ed esistono validi motivi perché ne abbia sempre più. Quando gli sfruttati rompono le catene dell’ideologia borghese e praticano le proprie idee, la forza dell’esempio diventa dirompente; i proletari di Trento che hanno rifiutato la legalità borghese per assumere quella rivoluzionaria, hanno compiuto il primo processo e la prima esecuzione. L’imputato e la vittima del secondo è già da tempo designato: un commissario aggiunto di P.S., torturatore ed assassino. Sappiamo che è solamente un servo, un esecutore del progetto dello stato capitalista di repressione del proletariato; sappiamo che dentro tutto l’apparato statale, nel governo, nel parlamento, nell’esercito, nei partiti, nei sindacati, esistono mille Calabresi, criminali quanto e più di lui, che ogni giorno con le armi, con la violenza, con l’inganno, con la fatica, con le false illusioni opprimono il proletariato, lo sfruttano, lo ingabbiano; e sappiamo quindi che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo stato assassino.

Luigi Calabresi, commissario aggiunto di P.S., 30 anni, abitante a Milano, in via Largo Pagano (la casa è riconoscibile perché segnata di scritte, ora cancellate, e perché vi staziona davanti una macchina con un poliziotto in borghese). Il numero di telefono non è riportato sull’elenco ma fino a poco tempo fa, su richiesta, veniva comunicato dal centralino. Stipendio «dichiarato»: 160 mila lire al mese. Sposato e padre di una bambina. Agente del S.I.D. (ex SIFAR) e della C.I.A. Torturatore di alcuni compagni, assassino di Giuseppe Pinelli, complice degli autori della strage di Milano. Collaboratore del consigliere istruttore Antonio Amati. Pubblicista collaboratore nel ’66 della «Giustizia», organo ufficiale del Partito Socialista Democratico Italiano (oggi PSU; il partito di Saragat). Sempre nel ’66 fa un viaggio in America dove frequenta un corso di specializzazione presso la C.I.A.

Nel ’67 a Roma fa l’accompagnatore del generale Edwin A. Walker, consigliere militare del fascista Barry Goldwater. Presenta il generale ai colleghi italiani Aloia e De Lorenzo.

Partecipa a riunioni segrete con questi nella casa di De Lorenzo, in via di Villa Sacchetti 15. Dopo l’attentato fascista del 25 aprile Luigi Calabresi procede all’arresto di cinque anarchici e in carcere notifica loro il mandato di cattura; compie personalmente perizie grafologiche sugli arrestati, senza l’intervento della difesa, ne trasporta uno nel bergamasco perché indichi, dietro minacce, la cava da cui avrebbe rubato dell’esplosivo (furto peraltro inesistente). Luigi Calabresi, il commissario Zagari, e gli agenti Muccilli e Panessa torturano in questura con schiaffi, colpi alla nuca, pugni, torsione dei nervi del collo e minacce il compagno Paolo Faccioli, costringendolo a firmare un verbale falso di autoaccusa.

La sera del 12 dicembre, tre ore dopo gli attentati, dichiara che «i colpevoli sono gli anarchici» poi va al circolo anarchico di via Scaldasole e preleva Pinelli. Durante il tragitto chiede di «quel pazzo sanguinario di Valpreda». In questura dirige gli interrogatori di Pinelli insieme a Sabino Lo Grano, Vito Panessa, Carlo Mainardi e Mucilli. Domenica 14 Pinelli è ancora trattenuto illegalmente in questura e dice ad un altro fermato di sentirsi perseguitato da Calabresi. Dalla stanza in cui Pinelli continua ad essere interrogato provengono rumori «come di una rissa». Poco dopo la morte di Pinelli; Calabresi dice ad un fermato di essere stato presente al momento della caduta. Insieme a Vito Panessa sostiene che Pinelli era un delinquente ed era coinvolto negli attentati del 25 aprile. Successivamente la questura affermerà che Calabresi si trovava al momento della morte di Pinelli nell’ufficio di Antonino Allegra. Parecchi mesi dopo Calabresi compie una perquisizione nella casa di Milano di un agente del KYP (la sezione greca della CIA); la perquisizione, secondo Calabresi, è negativa in quanto non consente di scoprire elementi rilevanti. Poi si viene a sapere che nella casa del suddetto agente sono state trovate cassette metalliche simili a quelle della bomba della Banca Commerciale, un timer anch’esso simile, armi e pallottole.

Il 9 ottobre Luigi Calabresi comparirà davanti alla 1 sezione del tribunale di Milano, presieduta dal consigliere Biotti, Pubblico Ministero Guicciardi, per rispondere dell’assassinio di Giuseppe Pinelli. Luigi Calabresi è difeso dall’avvocato Lener, già difensore dei poliziotti che nel luglio ’60 a Reggio Emilia mitragliarono i proletari ammazzandone 6, difensore di Felice Riva sfruttatore di operai, bancarottiere e attualmente turista nel Libano, e ancora difensore del fascista Guareschi e dell’ammiraglio (ugualmente fascista) Trizzino.

Lotta Continua 1 ottobre 1970 Pinelli, un rivoluzionario.

27 settembre 2012

 

Lotta Continua 1 ottobre 1970 disegno Claudia Pinelli     Giuseppe Pinelli, operaio e rivoluzionario; ucciso dalla polizia come migliaia e migliaia di proletari che lo stato borghese ammazza nelle strade, nelle piazze, nelle fabbriche, nei cantieri. 174 proletari caduti sotto il fuoco di polizia e carabinieri dal 1947 ad oggi, 2270 operai morti ogni anno sul posto di lavoro, vittime della fatica, della nocività, della disciplina. La violenza legale, elemento irrinunciabile dello stato borghese, dello sviluppo capitalistico, del controllo sulla classe operaia, consuma i suoi crimini per sopravvivere e rafforzare il suo dominio. La lotta di classe del proletariato, autonoma rispetto agli interessi della produzione e al progetto di forzata pacificazione delle organizzazioni riformiste, provoca inevitabilmente la rappresaglia dello stato.

Le 16 vittime della strage di Milano e l’uccisione di Pinelli sono la faccia criminale dell’affannosa e disperata difesa del capitale, messo alle strette dall’offensiva proletaria. L’altra faccia è il puttanesco tentativo riformista di coinvolgere la classe operaia nella gestione del proprio sfruttamento. Giuseppe Pinelli, operaio e rivoluzionario, buttato giù da una finestra del quarto piano della questura perché aveva capito la natura del complotto di stato. Gli opportunisti, gli stupidi, i legalisti possono ignorare la cosa, scandalizzarsene, strumentalizzarla per mettersi d’accordo coi padroni e acquistare una fetta di potere. E lo fanno ampiamente e dovranno rispondere anche di questo. Chi attribuisce la morte di Pinelli al fatto che la costituzione non viene applicata, chi tace su di essa perché «estranea alla coscienza delle masse» e preferisce fare le processioni commemorative, chi aspetta che il caso Pinelli venga archiviato per esprimere la propria indignazione, ritenendo che anche questi (PCI, PSI e i loro leccaculi del M.S. della statale di Milano) non possono parlare di Pinelli, stanno dalla parte dei suoi assassini, come chi, la sera delle bombe, nelle aule dell’università Statale, imbecille più ancora che provocatore, attribuiva gli attentati agli anarchici, «storicamente avventuristi ed estremisti».

Tutti questi devono tacere, o commemorare i propri futuri caduti: i Berlinguer, i Novella e i Saragat. Di Pinelli possono parlare i proletari, quelli che ogni giorno combattono la loro guerra di classe e rifiutano i compromessi, le trattative, le rese. Perché Pinelli era uno di loro, e come molti di loro è stato ucciso. E’ un morto «di parte» quindi, ucciso da quelli che difendono la parte avversaria, ma non un morto di gruppo. I rivoluzionari non sono divisi in sette  Ammazzando Pinelli non è stato colpito il movimento anarchico, ma l’avanguardia rivoluzionaria del movimento di classe; ammazzando Pinelli, il potere ha tentato di dare una lezione alle migliaia e migliaia di proletari che nelle fabbriche, nella campagne, nei quartieri, nelle scuole decidono di prendere in mano il loro destino per trasformare radicalmente la loro vita, con l’unico strumento di cui dispongono: la violenza rivoluzionaria di massa, che è tutto l’opposto e la negazione della violenza vigliacca di chi mette le bombe e di chi ammazza con un volo dalla finestra. Ammazzando Pinelli hanno creduto di eliminare un «estremista», perché la sua fine fosse di avvertimento agli altri «estremisti». Ed è qui che gli assassini hanno sbagliato completamente i loro conti. Il nemico è una tigre di carta, e per giunta stupida; essendo fuori e contro le masse non ne conosce la realtà. Non sa che gli «estremisti» oggi sono milioni di uomini e di donne, sono tutti gli sfruttati che non vedono altra soluzione alla loro miseria che la lotta di classe e che esprimono la volontà e la coscienza della parte più grande e migliore degli uomini. Sopprimendo «l’estremista» Pinelli non potevano mettere a tacere l’estremismo di massa. Questo è oggi, più che mai, voluto e praticato nelle strade e nelle fabbriche; e la morte di uno di loro è stato per i proletari un elemento da aggiungere a quella somma di violenze di cui chiederanno conto ai loro sfruttatori; è stata per le masse un’occasione per la comprensione più ampia e generale della natura del sistema capitalistico e della necessità del suo abbattimento. Giuseppe Pinelli è quindi dentro questa lunga stagione di lotta degli sfruttati di tutto il mondo, col diritto che gli deriva dalla sua coerenza di rivoluzionario, dalla sua esperienza di proletario, dalla sua storia di lotte, di fatica, di sfruttamento.

«Tutti devono morire, ma non tutte le morti hanno uguale valore. Tutti gli uomini muoiono, ma la morte di alcuni ha più peso del monte Tai e la morte di altri è più leggera di una piuma. La morte di chi si sacrifica per gli interessi del popolo ha più peso del monte Tai, ma la morte di chi serve gli sfruttatori e gli oppressori è più leggera di una piuma. Dovunque c’è la lotta, c’è sacrificio e la morte è un caso comune. Ma noi abbiamo a cuore gli interessi del popolo e quindi morire per il popolo significa morire di una morte degna. Da oggi in poi chiunque di noi muoia, sia un combattente o un cuciniere purché abbia svolto un lavoro utile, sarà per noi accompagnato all’ultima dimora e commemorato».

Giuseppe Pinelli nasce a Milano nel 1928 nel quartiere di Porta Ticinese. Finite le elementari inizia a lavorare. Studia come autodidatta. Nel 1944-45 a 16 anni, partecipa alla resistenza con un gruppo di partigiani anarchici che opera a Milano. Trova lavoro nelle ferrovie come manovratore. Si sposa e ha due figlie.

Si unisce agli anarchici di Gioventù Libertaria, e negli anni successivi è tra i fondatori dei circoli Sacco e Vanzetti, Ponte della Ghisolfa e via Scaldasole. E’ militante dell’Unione Sindacale Italiana e della Crocenera Anarchica. Come tale si occupa dell’opera di difesa e assistenza dei compagni colpiti dalla repressione.

Il 12 dicembre 1969 viene fermato al circolo di via Scaldasole da Calabresi, Zagari e Panessa e portato al 4° piano della questura nell’ufficio di Calabresi. Rimarrà in questura venerdì notte, tutto il sabato, la domenica, il lunedì. Il commissario Pagnozzi dà ordine ad alcuni poliziotti di «riservare al Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione tutta la notte».

L’ultimo interrogatorio è la notte del 15 nell’ufficio di Calabresi. Intorno alla mezzanotte viene spinto giù dalla finestra, dopo che un colpo di karaté gli ha procurato una lesione bulbare.

I suoi assassini sono Marcello Guida, questore di Milano; Antonino Allegra, capo della squadra politica; il commissario aggiunto di P.S. Luigi Calabresi; il tenente dei carabinieri Sabino Lo Grano; i brigadieri Panessa, Mucilli, Caracuta e Mainardi.

Al funerale di Pinelli partecipano 3000 compagni.

Licia Pinelli: “… non si può tutti e sempre continuare a tacere”

Cari compagni,

sin dall’inizio ho seguito la vostra coraggiosa battaglia in difesa della verità e contro una repressione subdola e prepotente che a Milano, come altrove, cercava e cerca tuttora, di instaurare un nuovo fascismo, addirittura peggiore di quello precedente.

Avrei voluto da tempo esprimervi la mia solidarietà ma solo ora, in occasione del primo processo alle cause e ai responsabili della morte di Pino, ho sentito anche il «dovere» di farlo.

In Italia anche questo può costare caro (e voi lo sapete bene!) ma non si può tutti e sempre continuare a tacere.

Con stima

Licia Rognini Pinelli

Lotta Continua 6 giugno 1970 Un’amnistia per Calabresi? – Dopo l’archiviazione del caso Pinelli

27 settembre 2012

 Lotta Continua 6 giugno 1970 vignetta contro Calabresi

«È la polizia che turba l’ordine invece di mantenerlo;è nei suoi ranghi, alla questura, che s’incontrano gli assassini»

(René Viviani,antico ministro degli interni)

«Archiviano Pinelli, ammazziamo Calabresi»: è scritto sui muri di Milano, è scritto anche sulla caserma S. Ambrogio, e noi, solo per dovere di cronaca, come si dice, riportiamo la cosa. A prima vista, a noi superficiali lettori di scritte murali, questo sembrerebbe un incitamento all’omicidio di funzionario di P.S.

Quello che infastidisce è che, se qualcuno segue il suggerimento, si rischia di vedere saltare, per morte del querelante, il processo Calabresi-Lotta Continua, e la cosa in effetti ci dispiacerebbe un po’; a meno che Panessa o Muccilli o Mainardi (questo è l’ultimo arrivato) non volessero sostituirlo all’ultimo momento. Sarebbe proprio bello in questo caso; uno morto e disperso al vento (è noto che la schiatta dei Calabresi pratica da millenni l’usanza di bruciare su una pira il corpo dei congiunti morti di arma bianca) e uno esposto al ludibrio del proletariato in un’aula di tribunale.

Comunque, come era stato facilmente previsto, il caso Pinelli è stato archiviato. Avevamo scritto nel numero precedente che l’eventuale condanna di «Lotta Continua» nel processo contro Calabresi avrebbe permesso alla magistratura di concludere più dignitosamente (e con un ruffianesco riconoscimento di onestà) l’inchiesta sulla morte di Pinelli. Ci sbagliavamo per eccesso di prudenza e di accortezza: sarà, al contrario, la banditesca archiviazione che consentirà la risoluzione anche del «caso Calabresi»; e Calabresi a questo punto (ed è il secondo rischio) potrebbe anche morire dalla voglia di non farlo questo processo e accontentarsi dell’eroismo dimostrato nel presentare, a fronte alta, una querela contro il direttore di un giornale.

In ogni caso quando si tratta di magistrati e poliziotti dobbiamo sempre andare oltre nell’ipotizzarne e prevederne il comportamento criminale, senza lasciarci suggestionare da tutte le chiacchiere sulla riforma della polizia e sulla magistratura democratica. Le contraddizioni tra reazionari e progressisti, il riformismo dello stato socialdemocratico, la strategia laburista, sappiamo tutti che esistono e hanno una loro precisa rilevanza, all’interno del regime e dei suoi diversi rami, ma il loro connotato non è, come qualcuno crede, la capacità di eliminare o fare a meno degli elementi, dei settori, degli strumenti più arretrati o scopertamente reazionari; ma è viceversa la capacità del regime di integrare e armonizzare le strutture e le vocazioni fasciste in una strategia socialdemocratica. Sarebbe da sciocchi pensare che non solo questa caricatura di stato riformista, ma anche uno più raffinato e accorto (se gli daremo il tempo di farlo) possa per esempio rinunciare all’omicidio politico (o alla strage) come strumento di controllo sulle masse; è vero piuttosto che, all’interno di un progetto di riforma dello stato, altri strumenti avranno funzioni più ampie e complesse.

Questo per sgomberare il campo da ogni illusione e per non cadere nella trappola dello stupore per iniziative «non coerentemente riformiste» di individui come Caizzi; l’archiviazione del caso Pinelli non è indicativo di un «rigurgito fascista» o di «tentazioni autoritarie» (come Berlinguer e Pajetta vogliono farci credere) ma è pienamente e coerentemente una scelta socialdemocratica. E allora Caizzi può anche fregarsene di tutto e portare avanti ostinatamente la sua parte, senza concessioni né formali né sostanziali alle voglie dei progressisti e dei «democratici»: tanto più che alla resa dei conti chi utilizzerà tutto questo non sarà il cane morto della socialdemocrazia marca P.S.U. e Saragat, ma sarà proprio chi ora si straccia le vesti e grida allo scandalo e in definitiva ringrazia Caizzi perché gli permette appunto di stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo. D’altra parte l’isterica richiesta di giustizia dell’Avanti può poco (e inganna sempre meno) di fronte al deserto dell’iniziativa anche governativa di Nenni e dei suoi inquilini. Il P.C.I. nel frattempo riporta le notizie e le testimonianze già ripetute venti volte e si lamenta perché De Martino non interviene; e, con squisita sensibilità, pare intenzionato a rinviare tutto a dopo le elezioni; così dalla scheda elettorale ora dipende non solo la dittatura del proletariato ma anche la verità su Pinelli. I nostri amici intanto continuano a farne di grosse; Caizzi per motivare l’archiviazione dell’inchiesta ha parlato di «morte del tutto accidentale»: ora anche uno sprovveduto come Guida capisce benissimo che il suicidio è una morte «volontaria» e non «accidentale» e quindi la formula usata da Caizzi equivale perlomeno ad accusare il questore e Calabresi di aver mentito; ma è qualcosa di più: è il tentativo di Caizzi di prepararsi una via d’uscita nel caso che emerga la versione (ugualmente falsa ma più suggestiva) della «caduta dalla finestra dovuta a un malore improvviso» (che è quanto Lo Grano ha deposto davanti ai suoi superiori).

A questo punto qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi e Guida per «falso ideologico in atto pubblico»; noi che, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte, ci accontentiamo di acquisire anche questo elemento. Ma Calabresi è invece più difficile da accontentare; sputtanato com’è dovrebbe limitarsi a giocare a boccette per il resto della sua vita o fare il vigile urbano al cordusio e invece si ostina a giocare al poliziotto tipo «Ti spacco il muso, bastardo d’un Betty Blue!». Appena Allegra lo lascia un attimo solo ne approfitta per farne una delle sue: è andato anche dal proprietario di una tipografia e l’ha minacciato, nel caso questi avesse intenzione di continuare a stampare manifesti nei quali a proposito di Pinelli più che di suicidio si tende a parlare di omicidio.

Un rischio comunque, come dicevamo, esiste: questa benedetta amnistia, tra clausole e deroghe, è per buona parte dedicata a noi (reati di stampa, diffamazione, diffamazione con facoltà di prova, diffamazione a pubblico ufficiale) e di questo non possiamo non ringraziare chi ha avuto tanta disinteressata sollecitudine nei nostri confronti; ma una cosa vogliamo dirla con molta chiarezza: questa amnistia, per quanto riguarda la nostra «diffamazione» di Calabresi, non ci interessa e non la vogliamo; a tutt’oggi appare improbabile, ma non è da escludere, che Volo d’Angelo tenti il colpaccio di fare includere all’ultimo minuto il nostro reato tra quelli amnistiabili. Guai a lui! Questo processo lo si deve fare, e questo «marine» dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai ed è inutile che si dibatta «come un bufalo inferocito che corre per i quattro angoli della foresta in fiamme».

Lotta Continua 14 maggio 1970 Calabresi, sei tu l’accusato – Il processo a Lotta Continua

26 settembre 2012

Una cosa innanzitutto che potrebbe servire, se ce ne fosse bisogno, a fare maggiore chiarezza: il poliziotto Luigi Calabresi, una volta che è riuscito a raccogliere il coraggio necessario a sporgere querela contro «Lotta, Continua» per «diffamazione continuata e aggravata», sceglie come difensore l’avvocato Lener. Ora, noi sappiamo di essere stati spesso maliziosi e irriverenti nei confronti del poliziotto Calabresi, ma chi sa perché, anche se per una volta ci sforziamo di non avere pregiudizi, non riusciamo ad attribuire al caso il fatto che sia stato questo stesso avvocato a difendere nel 1960 i poliziotti, accusati di omicidio per avere mitragliato il proletariato di Reggio Emilia, lasciando sul terreno sette morti; ed è sempre il Principe Del Foro Lener che difende Felice Riva dopo che questi ha rovinato migliaia di operai, sfruttati prima, licenziati in massa dopo.

Sarà forse azzardato da parte nostra, ma ci pare proprio di individuare una certa continuità nell’operato di questo avvocato che coerentemente, dopo aver difeso gli assassini di Reggio Emilia e gli sfruttatori della Valle Susa, accorre sollecito a difendere Luigi Calabresi, detto Volo d’Angelo (Volo per gli intimi della questura).

Ora, non crediamo proprio che con i precedenti dell’avvocato e con quelli del cliente soprattutto dobbiamo andare davanti a un tribunale borghese a chiedere giustizia, né tantomeno possiamo pensare di ottenerla; ma soprattutto non crediamo che l’aula del Palazzo di Giustizia di Milano sia la sede adatta per giudicare il nostro operato.

Abbiamo scritto due mesi fa che «solo giudice è il proletariato» e oggi possiamo ripeterlo con la stessa convinzione; è la lotta di classe, sono le masse proletarie la nostra unica legalità; la «loro legalità», l’insieme delle leggi dello stato borghese e dei capitalisti, ci riguarda solo perché nel corso della lotta di classe ne subiamo le conseguenze; ma non crediamo assolutamente che dobbiamo appellarci ad una interpretazione democratica delle leggi o della Costituzione per difenderci; queste sono le armi della borghesia che il proletariato può solo distruggere, non utilizzare; le nostre armi sono altre, più difficili, più faticose, più pericolose, ma infinitamente più efficaci; è l’organizzazione della forza e dell’autonomia del proletariato, che farà giustizia di tutti i suoi nemici.

E ìl proletariato ha già espresso il suo giudizio nei confronti di questa storia e ha condannato senza appello chi ha messo le bombe di piazza Fontana, chi ha ucciso Pinelli, proletario e compagno, che tiene degli innocenti in galera.

Comunque Calabresi ci ha querelato per diffamazione, dicono i giornali; ora, delle due una, o l’abbiamo diffamato perché abbiamo scritto che «ha la mascella aggressiva» oppure perché abbiamo scritto che ha «suicidato» Pinelli; i giornali non lo specificano, la querela non è stata ancora depositata e quindi ogni illazione è possibile: per esempio potrebbe anche riferirsi al fatto di aver scritto che «Calabresi presentò al generale americano Walker i generali italiani Aloia e De Lorenzo», (a questo proposito, se interessa a qualcuno, potremmo aggiungere che l’incontro Walker-De Lorenzo avvenne a Roma nel pomeriggio del l° aprile del ’69, nell’appartamento di De Lorenzo in via di villa Sacchetti 15); comunque per le poche notizie che abbiamo e soprattutto per la conoscenza non superficiale del Calabresi possiamo arguire che il Nostro si sia risentito soprattutto per le accuse di omicidio.

E di questo ci stupiamo un po’: 1) perché lo sanno tutti che è lui; 2) perché dovrebbe denunciare incatenare, garrottare e gasare metà dei giornalisti italiani; 3) perché dovrebbe abbattere (e non è impresa da poco) 1’80 per cento dei muri di Milano dove il suo nome (Calabresi o talvolta Calabrese) è sempre accompagnato da una serie di definizioni, di cui la più tenera è «assassino».

Comunque, dicevamo, Volo d’Angelo (o Volodangelo) ci ha querelato e questo fatto lo si deve valutare politicamente; abbiamo scritto più volte il nostro giudizio politico sulla strage di Milano e ci sembra superfluo ripeterlo ora; così pure dell’assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il proletariato sa chi sono i responsabili e saprà fare vendetta della sua morte; e abbiamo anche detto come fosse determinante essere in grado di rispondere alla borghesia anche su questo terreno, rifiutando e smascherando l’infame gioco delle parti e il macabro mercato delle vacche che dal 12 dicembre i settori reazionari (ben presto esclusi dal gioco) e quelli più o meno avanzati e «socialisti» (fino al PCI) hanno organizzato e gestito intorno alle squallide crisi di governo e alle puttanesche trattative di partito.

Tutto questo scandito da un continuo alternarsi di silenzi e indiscrezioni (di cui l’«Avanti» è stato il più abile manipolatore) che sono state di volta in volta promessa e minaccia nei confronti degli alleati (o avversari) troppo riottosi o troppo arditi. Quindi la completa omertà, fino alla ricostituzione del centro sinistra e poi «gli ideali dei socialisti» (come dice l’«Unità») spingono l’«Avanti» a dire che forse, probabilmente, potrebbe anche darsi, …una sfilza di punti interrogativi e … Pinelli è stato ucciso da un colpo di karaté; (ma non ditelo a nessuno mi raccomando, e non fatelo sapere in giro, altrimenti i borghesi si offendono, i proletari magari si indignano e Calabresi vi può anche denunciare). Poi in un momento di calma, quando il regime si è stabilizzato per benino e «gli ideali socialisti» sono stati soddisfatti a buon mercato con qualche dubbio discreto, la denuncia contro chi ha sempre creduto che Pinelli, Valpreda e i morti di piazza Fontana non fossero né moneta di scambio né argomento eccitante per i piccoli-borghesi, ma fossero fino in fondo elemento di chiarificazione e di lotta per il proletariato. E ancora lo dovrà essere perché è solo su questo, come abbiamo detto, che noi contiamo per la nostra difesa.

Col processo contro «Lotta Continua» Calabresi, e chi lo manovra, crede di assicurare a se stesso e alla polizia l’impunità e «l’innocenza giuridica» che permetta di archiviare l’inchiesta Pinelli con la maggiore rispettabilità e insospettabilità possibile, sgombrando il campo (almeno ufficialmente) dal dubbi che l’opinione pubblica progressista ancora nutre (e che non vede l’ora di abbandonare, a seguito di un’inchiesta democratica magari). Per noi va bene.

Ci potranno condannare forse, così come potranno archiviare «l’inchiesta Pinelli». Non è questo il punto. Andremo in tribunale per dire anche dal banco degli imputati chi sono i veri accusati, chi sono gli assassini. E saranno costretti ad ascoltarci, e non potranno far finta di niente e saranno ancora più numerosi i proletari che sapranno la verità. Vedremo allora chi è più forte, Calabresi o il proletariato.

E a questo punto anche i giornalisti democratici e i magistrati progressisti dovranno decidersi, saranno costretti a scegliere; o tirar fuori tutte le cose che sanno, oppure, come è più probabile, allinearsi docilmente (nei fatti, se non con le parole) con le forze reazionarie: come è loro tradizione e destino storico d’altra parte.

P.S.Abbiamo scritto più volte che Calabresi è un assassino; era giusto farlo, e oggi lo ripetiamo con più forza e convinzione (e non sarà una querela per diffamazione o un processo che ce lo impedirà); e questo anche se, per caso, il colpo di karaté non fosse stato lui a darlo ma, mettiamo, l’agente Muccilli; o se, per ipotesi, non fosse stato Calabresi a far scivolare (o a buttare) il corpo di Pinelli dalla finestra, ma, mettiamo Vito Panessa; è lui l’organizzatore (oltre a tutti gli altri naturalmente, sicari e mandanti) e, ancora una volta, è quindi lui l’assassino.

 Lotta Continua 14 maggio 1970 vignetta contro Calabresi

Lotta Continua 1 maggio 1970 Torture alla questura di Milano – Ricordiamoci i loro nomi: Zagari, Panessa, Calabresi, Muccilli

26 settembre 2012

Lotta Continua 1 maggio 1970 foto 01

Quello che riportiamo è una parte del verbale di un compagno arrestato e tenuto in prigione da più di un anno, sotto l’accusa di aver partecipato agli attentati del 25 aprile al padiglione Fiat della Fiera. Pur non esistendo nessuna prova a carico e pur essendo emersa la responsabilità fascista degli attentati, 4 compagni hanno già fatto un anno di carcere preventivo. Per tenerli in galera si è tentato di costruire prove false; il modo viene denunciato dal verbale. Altro particolare interessante è che i poliziotti accusati di torture sono gli stessi presenti all’interrogatorio e al «suicidio» di Pinelli. Anche di queste violenze dovranno rispondere; ricordiamoci i loro nomi; gliela faremo pagare.

«Dichiaro i motivi per cui i verbali da me precedentemente firmati sono completamente falsi. Per 3 giorni in Questura sono rimasto senza dormire e mi veniva imposto di stare in piedi quando le mie risposte non corrispondevano alla volontà degli agenti. Essi non hanno cessato un minuto di interrogarmi e per questo si davano il cambio. Solo al terzo giorno mi è stato concesso di mangiare; ho dovuto affrontare un viaggio di notte da Pisa a Milano, ero intirizzito perchè non avevo con me indumenti caldi. Ma quello che più ha influito nel farmi firmare i verbali scritti dalla polizia sono state le percosse e le minacce. Era la prima volta che subivo violenza fisica. Sono stato schiaffeggiato, colpito alla nuca, preso a pugni, mi venivano tirati i capelli, e torti i nervi del collo. Rendeva più terribile le percosse il fatto che avvenivano all’improvviso dopo aver fatto chiudere le imposte, e venivo colpito al buio. In particolare ricordo di essere stato colpito dal dr. Zagari che mi accolse al mio arrivo da Pisa alle 3 di notte con una nutrita scarica di schiaffi, e dagli agenti Mucilli e Panessa.

Quanto alle minacce, consistevano nel terrorizzarmi annunciandomi, codice alla mano, a quanti anni di carcere avrei potuto essere condannato, cioè fino a venti anni. Tali minacce mi furono ripetute in carcere da parte del dr. Calabresi. Non mi sono mai resto conto della gravità delle affermazioni false che ero costretto a sottoscrivere perché avevo coscienza che i fatti erano diversi e pensavo che la testimonianza di due persone adulte, quali l’architetto Corradini e la moglie non avrebbero lasciato dubbi. Questo perché pensavo che non mi credessero perché ero un ragazzo. Mi sono sempre fin dall’inizio dichiarato estraneo ai fatti.

L’ufficio dà atto che le predette dichiarazioni sono state dettate personalmente dall’imputato, ricavandole da un suo foglio scritto.»

Lotta Continua 1 maggio 1970 foto 02

Lotta Continua 24 marzo 1970 Un anno di bombe: Amati e Calabresi, sempre loro!

24 settembre 2012

Lotta Continua vignetta contro Calabresi 05

1968: alcune bombe-carta o bombe molto leggere firmate dagli anarchici con una funzione esclusivamente dimostrativa e propagandistica, poste all’esterno degli edifici. Su queste azioni si innesta l’intervento terroristico dell’estrema destra, con la complicità della polizia e della magistratura.

25 aprile: bombe al padiglione Fiat della Fiera e alla Stazione Centrale. Alcuni feriti.

Le indagini del giudice Amati vanno subito verso la sinistra: fermo di una trentina di persone a scopo diversivo, e poi l’arresto a colpo sicuro di 5 anarchici (è simpatico notare come sia sempre Luigi Calabresi a notificare i mandati di cattura); contro i coniugi Corradini non si trova il minimo indizio ma rimangono in carcere e il giudice Amati respinge 5 domande di scarcerazione. Poi la sezione istruttoria decide la scarcerazione degli anarchici. «Si rileva che gli interrogatori di Corradini, Vincileoni, e Pulsinelli si sono limitati alla semplice indicazione delle accuse, a richieste di chiarimenti circa le amicizie, i contatti, gli incontri con altri imputati, a delucidazioni su circostanze di secondaria importanza …va aggiunto che nei confronti dei coniugi Corradini nemmeno il capo d’accusa ha alcuna precisazione sulla modalità e sui termini coi quali si sarebbe effettuata la loro partecipazione agli attentati …pertanto i tre imputati devono essere scarcerati …L’ordinanza con la quale il giudice istruttore respinge l’istanza di scarcerazione dei difensori proprio sul punto essenziale delle indicazioni delle prove a carico, si risolve in un’affermazione apodittica e non fornisce alcuna giustificazione e spiegazione per le ragioni che determinavano il magistrato a respingere l’istanza stessa …il giudice non può tenere segreti gli elementi di colpevolezza raccolti o comunque esistenti agli atti del processo…». Nonostante questo il giudice Amati il 13 novembre spiccava i nuovi mandati di cattura «a seguito delle rivelazioni di una testimone segreta».

Dopo meno di un mese l’«Observer» e il «Guardian» pubblicavano un documento segreto greco in cui tra l’altro era scritto: «Le azioni che era stato previsto fossero realizzate prima non è stato possibile realizzarle che il 25 aprile. La modifica dei nostri piani ci fu imposta dal fatto che era difficile penetrare nel padiglione Fiat. Entrambi i fatti hanno prodotto effetti considerevoli». Certo per Amati e Calabresi era difficile accettare e vagliare questa ipotesi dal momento che sull’altra (responsabilità anarchica) avevano puntato tutto, tenendo in prigione per 7 mesi 2 compagni e rifiutando tuttora l’istanza di scarcerazione per altri 3. I coniugi Corradini vengono scarcerati, dopo 7 mesi, per mancanza di indizi; a Braschi non vengono nemmeno addebitati gli attentati del 25 aprile; Pulsinelli e Della Savia hanno un alibi. Nonostante questo rimangono ancora in prigione e nonostante esista un documento che afferma chiaramente la paternità fascista degli attentati.

8-9 agosto: attentati sui treni. Si cerca di attribuire la colpa agli anarchici; poi si preferisce tacere e l’inchiesta non va avanti; dopo molti mesi si cerca di coinvolgere Pinelli (ed è Guida che cerca di farlo in maniera maldestra). Senonché saltano fuori i nomi di due confidenti della polizia, Chiesa e Di Luia appunto.

12 dicembre: strage di Milano. Sappiamo tutti come vanno le cose, ma non è superfluo ricordare qualche particolare. Le indagini si dirigono subito verso l’estrema sinistra. Calabresi e Amati (sempre loro) accusano gli anarchici. Vengono fermati, interrogati e perquisiti 588 militanti della sinistra extraparlamentare e 12 fascisti (rilasciati per primi). Giuseppe Pinelli viene fermato il venerdì pomeriggio. Domenica sera dovrebbe essere o rilasciato o portato a S. Vittore. Rimane in questura e solo il lunedì la magistratura viene avvisata del suo fermo. È durante un fermo illegale quindi che Pinelli viene suicidato (e di questo «suicidio» ne abbiamo già parlato). Vi ricordiamo i nomi dei presenti: Luigi Calabresi, Sabino Lo Grano, Vito Panessa, Mucillo e un altro di cui ancora non è certa l’identità. Il martedì (che combinazione!) suicidio di Pinelli e riconoscimento di Valpreda da parte di Rolandi. A Rolandi, a Milano, viene mostrata una sola foto, quella di Valpreda; poi a Roma durante il riconoscimento (un anarchico «confuso» tra una fila di poliziotti) Rolandi indica Valpreda, poi ci ripensa: «se non è lui, qua dentro non c’è ». La frase non Viene messa a verbale. Questa prassi scorretta viene seguita per tutto il resto dell’istruttoria. Le perizie, quelle sulla bomba e quelle sul vetrino, vengono prima fatte a casa in privato, senza avvisare la difesa, e poi solamente in un secondo tempo si fanno le perizie ufficiali. L’ultima perizia proposta è quella psichiatrica; il piano ora si delinea con maggiore chiarezza: un organizzatore di attentati che compie errori così grossolani non può essere che pazzo.

E questa versione può forse accontentare tutti; il sistema democratico, nonostante qualche elemento malato, è sostanzialmente sano. Il secondo corriere delle bombe, pian piano, lo si sta già individuando; Antonino Allegra (un gentiluomo così riservato, abitualmente) ipotizza e suggerisce un nome: chissà che non sia Sottosanti – dice. E intanto si cerca di far ritornare l’ipotesi Pinelli nella responsabilità degli attentati (o nella versione dell’ingenuo tradito o in quella dell’organizzatore e del capo; in definitiva quel viaggio a Roma l’ha davvero fatto).

Occorsio vigila e trova prove in continuazione. Occorsio, lo sanno tutti, è un uomo di Sargat, e Saragat è il Presidente; se ci si deve fidare del Presidente, ci si può fidare anche del suo uomo. Occorsio ha dietro di sé una bella carriera. Democratico ma non troppo, reazionario ma con moderazione. Fa il pubblico ministero nel processo SIFAR-Espresso e anche qua fa quello che gli dice il Presidente; ma forse travisa il senso di qualche parola ed esagera: chiede l’assoluzione dei giornalisti. Si rifarà brillantemente dopo parecchi mesi, sempre, contro un altro giornalista. Il Presidente, dopo la strage di Milano dice che «davanti alla magistratura giacciono numerose denunce» e Occorsio collabora a portarle avanti. Chiede una «severa condanna» per Tolin e l’ottiene. E bravo Occorsio! Anche il PCI ha fiducia in te; i suoi avvocati non fanno una grinza di fronte ai vizi dell’istruttoria; anche loro obbediscono al Presidente; sanno che le istituzioni sono fragili e bisogna averne rispetto.

Perché la campagna di Lotta Continua per l’accertamento delle responsabilità del commissario Calabresi nella morte del compagno Pinelli fu giusta

30 aprile 2012


Da qualche tempo hanno ricominciato a piovere – grazie anche al film fantasy di Marco Tullio Giordana – ingiurie e menzogne contro la campagna di stampa che Lotta Continua portò avanti per l’accertamento della verità  sulla morte del compagno Pino Pinelli e sulle responsabilità del commissario Luigi Calabresi. Oggi come ieri siamo convinti che quella campagna fu giusta e riteniamo che parlarne ora separandola dal contesto in cui avveniva significhi deformare la storia. Pensiamo quindi che sia necessario ricordare, sia pur brevemente, i fatti.

La notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 il corpo del compagno Giuseppe Pinelli precipita dal quarto piano della Questura di Milano dalla stanza del commissario della squadra politica Luigi Calabresi. Sono presenti i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli e il tenente dei carabinieri Savino Lograno.

Nelle prime ore del 16 dicembre, nell’ufficio del questore Guida (quello  che durante il fascismo aveva diretto il carcere-confino di Ventotene) si tiene una conferenza stampa. Sono presenti, oltre allo stesso Guida,  Allegra, Calabresi e Lograno. E’ il questore ad aprire la danza delle menzogne – puntualmente riferite dalla giornalista Camilla Cederna – dichiarando che Pinelli “era fortemente indiziato di concorso in strage…era un anarchico individualista…il suo alibi era crollato… non posso dire altro…si è visto perduto..è stato un gesto disperato…una specie di autoaccusa, insomma. ….il suo era un fermo prorogato dall’autorità”.

Un’altra giornalista, Renata Bottarelli, annota le parole di Allegra che dice che negli ultimi tempi il suo giudizio su Pinelli era cambiato, perché certe notizie avevano messo l’anarchico in una luce diversa, poteva essere implicato in una storia come quella di piazza Fontana.

Parla poi  Calabresi,  secondo quanto riferisce ancora Renata Bottarelli: “Innanzi tutto ci disse che al momento della caduta lui era da un’altra parte; era appena uscito per andare nell’ufficio di Allegra per informarlo del decisivo passo avanti fatto, a suo parere, durante le contestazioni. Gli aveva, infatti, contestato i suoi rapporti con una terza persona, che non poteva ovviamente nominare, lasciandogli credere di sapere molto di più di quanto non sapesse; aveva visto Pinelli trasalire, turbarsi. Aveva sospeso l’interrogatorio, che però non era un vero e proprio interrogatorio, per riferire ad Allegra questo trasalimento”.

Poche ore più tardi è Guida a rincarare la dose con una sconcertante dichiarazione “Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi! Quel poveretto ha agito coerentemente con le proprie idee. Quando si è accorto che lo Stato, che lui combatte, lo stava per incastrare ha agito come avrei agito io stesso se fossi un anarchico”.

Sono queste le parole false, vigliacche e infamanti con cui  dirigenti e funzionari della questura di Milano si inventarono il “mostro” Pinelli in un maldestro tentativo di coprire le proprie responsabilità per quella morte. Ma sarà proprio l’uccisione del compagno Pinelli a diventare “la sabbia” che bloccherà l’ingranaggio della provocazione messa in atto contro gli anarchici e che aprirà gli occhi ad ampi settori democratici del Paese su quella, che sarà purtroppo solo la prima, delle stragi di Stato.

Gli apparati giudiziari – dimostrando la loro totale sudditanza alla ragion di stato – cercheranno di chiudere il più rapidamente possibile il capitolo della morte di Pinelli per togliere dai carboni ardenti i solerti dirigenti milanesi.

Il 21 maggio 1970 il sostituto procuratore Giuseppe Caizzi chiude l’inchiesta sulla morte di Pinelli , trasmettendo il fascicolo con la richiesta di archiviazione al giudice Amati, sostenendo che non vi era stata nessuna “responsabilità penale” e che Pinelli era morto per “un fatto del tutto accidentale”.

Il 3 luglio Antonio Amati deposita il decreto di archiviazione sulla morte di Pino.

Il 17 luglio Caizzi deposita un’altra richiesta di archiviazione, quella relativa alla denuncia della moglie e della madre di Pinelli contro il questore Marcello Guida per le sue dichiarazioni dopo la morte di Pino.

E’ in questo contesto, contro questo vergognoso tentativo di salvare coloro che si trovavano nella stanza con Pinelli,  coloro che lo detenevano illegalmente oltre i limiti consentiti dalla loro stesse leggi, coloro che lo stavano torturando fisicamente e mentalmente (minacce, tenuto senza dormire, senza quasi mangiare, tentativi di incastrarlo nella strage, ecc.)  che nasce e si sviluppa la campagna di stampa di Lotta Continua.

 Come ci racconta un testimone dell’epoca, un compagno di Crocenera anarchica, la “persecuzione” del giornale Lotta Continua contro Calabresi non fu una campagna di odio cieco, come si vuol oggi far credere, ma fu una strategia ben mirata e calcolata con gli avvocati (compreso Gentili, un cattolico convinto) e condivisa con noi anarchici, quando il giudice Caizzi stava per archiviare il caso Pinelli. L’obiettivo era ottenere la querela da parte di un pubblico ufficiale (cosa che implicava facoltà di prova) per riaprire un’istruttoria sulla morte di Pino. Cosa che avvenne. Senza gli articoli di Lotta Continua non avremmo mai avuto il processo Calabresi-Lotta Continua (cioè contro Pio Baldelli che ne era il direttore responsabile), e non sapremmo niente sulla morte di Pinelli.

Calabresi tardò molto a querelare perchè voleva giustamente che lo facesse il Ministero, il quale invece non ne volle sapere. Fu così che gli articoli e le vignette divennero sempre più aspri.

Il commissario Calabresi – al di fuori che possa essere provata o meno la sua presenza nella stanza – era il più alto in grado a dirigere l’interrogatorio, sapeva cosa avveniva in quella stanza anche quando non era presente, sapeva che il fermo prolungato di Pinelli era illegale, e quindi il commissario era e rimane il principale responsabile di quella morte.

Coloro che oggi cercano di riabilitare la figura di Calabresi sono soltanto dei falsi e degli ipocriti. Falsi perché negano le sue responsabilità oggettive .  Ipocriti perché se anche si potesse provare, e non è ancora stato fatto, che non era presente in quella stanza nulla cambierebbe rispetto alla sua “complicità morale” con quella morte. Ricordiamo che con la formula  “complicità morale” in questo presunto stato di diritto sono stati comminati ai militanti dei gruppi armati decine e decine di ergastoli  senza che nessun  paladino dei diritti battesse ciglio.

Per questo motivo noi non rinneghiamo nulla di quella campagna di stampa e non ci vergogniamo di averla sostenuta. Era giusta ieri come lo sarebbe oggi. A distanza di 43 anni dai fatti noi ci battiamo ancora per la verità sulla morte di Pino Pinelli.

Umanità Nova 22 febbraio 2009 La notte che Pinelli di Luciano Lanza

8 novembre 2011

Quarant’anni sono tanti. Eppure quel 12 dicembre 1969 pesa ancora. E altrettanto pesa quella notte del 15 dicembre nella questura di Milano. Una strage con 17 morti alla Banca nazionale dell’agricoltura e il volo da una finestra del quarto piano di Giuseppe Pinelli sono una fase cruciale nella storia di questo paese, l’Italia. E ha ragione Adriano Sofri che inizia il suo ultimo libro scrivendo: «Forse l’Italia non sarà mai un paese normale. Forse è il paese in cui tutto diventa normale».

Sì, purtroppo, tutto diventa normale e quella strage e quella morte sono due dei tanti misteri: nessuno ha messo la bomba nella banca, nessuno ha causato la morte dell’anarchico Pinelli.

Questo libro, La notte che Pinelli (Sellerio, Palermo, 2009), assume quarant’anni dopo quei fatti una valenza importante perché nella meticolosa, puntigliosa, metodica ricostruzione dei fatti si trasforma in un atto d’accusa che non lascia vie d’uscita a poliziotti (Antonino Allegra, Luigi Calabresi, Vito Panessa, Pietro Mucilli, Carlo Mainardi, Giuseppe Caracuta), carabinieri (Savino Lograno), questori (Marcello Guida), giudici (Giovanni Caizzi, Antonio Amati, Gerardo D’Ambrosio), uomini dei servizi segreti (Federico Umberto D’Amato, Elvio Catenacci).

Sia chiaro, Sofri non fa accuse generiche: mette a confronto le numerose contraddizioni in cui cadono tutti questi personaggi e quindi ne fa emergere i falsi clamorosi che però vengono ignorati o volutamente sottovalutati.

Un libro puntiglioso e per questo importante. I poliziotti che erano in quel quarto piano della questura di Milano subito dopo la caduta di Pinelli dicono cose che poi vengono modificate e poi ancora modificate. Ma nessuno ne tiene conto… nessuno di quelli che dovrebbero ricercare, per dovere istituzionale, la verità dei fatti.

Dal processo che vede Pio Baldelli, direttore responsabile di Lotta continua, querelato da Calabresi, fino alla sentenza del 1975 di D’Ambrosio assistiamo a «ipocrisie statali». Ipocrisie statali chiuse definitivamente con D’Ambrosio (oggi senatore del Partito democratico, allora vicino al Partito comunista) che sostiene: l’anarchico è caduto per un «malore attivo». Una sentenza, ricordiamo l’anno, tipica da «compromesso storico»: Pci e Dc si stavano avvicinando e non bisognava mettere in difficoltà i notabili democristiani. Una sentenza che ignora o minimizza (e Sofri ricostruisce con precisione quegli avvenimenti) una girandola di versioni che farebbe pensare a una commedia satirica degli equivoci, se non fosse per la drammaticità dei fatti.

Eppure è questa la verità processuale, la verità dello stato italiano.

«Quanto a un malore, dovrebbe essere così attivo da far compiere al corpo colpito non solo una “improvvisa alterazione del centro di equilibrio”, ma anche il gesto di spalancare l’anta socchiusa. Non è solo attivo, questo malore, è attivissimo», commenta Sofri sulla ricostruzione di D’Ambrosio sul volo di Pinelli.

Quarant’anni sono tanti. La gente dimentica. I falsi di chi è stato e sta al potere diventano delle «quasiverità». Perché siamo di fronte a cose che «gridano vendetta»: perfino quelli riconosciuti colpevoli della strage di piazza Fontana (Giovanni Ventura e Franco Freda) non possono essere condannati perché definitivamente assolti da altri tribunali.

Ma qui si apre un discorso per uscire dalla logica corrente: non ci si deve fermare alla verità processuale, dopo quarant’anni servirebbe a qualcuno e a qualcosa che due neonazisti invecchiati vadano in carcere? Servirebbe a qualcosa che un ricchissimo emigrante in Giappone venga riportato in Italia? No, non è nelle sentenze di colpevolezza dei tribunali dello stato che si ottiene la vera giustizia: è nelle sentenze fra la gente, nelle sentenze (a questo punto) storiche che si deve puntare, cioè una giustizia a misura umana. Cioè estranea alla dimensione statuale. Perché lo stato è colpevole della «strage di stato» e non si condannerà mai. E questo libro è un tassello importante per confermare questa verità.

Umanità Nova 3 luglio 1971 Calabresi e sei funzionari accusati di omicidio volontario Dopo lo scandalo Biotti la denuncia di Licia Pinelli di Comitato Politico Giuridico di Difesa

1 settembre 2011

 Lo Stato dovrà piegarsi ad ammettere la verità

E’ stato detto e ripetuto infinite volte: «vogliamo la verità sulla morte del compagno Pinelli, non taceremo finchè tutti i responsabili non saranno smascherati». E’ un obbligo che abbiamo verso un militante rivoluzionario che ha dato tutto se stesso alla lotta per la giustizia sociale. E’ un dovere verso il Movimento perchè la menzogna ufficiale con la quale si è tentato di coprire il suo assassinio nasconde i mandanti e gli esecutori della strage di Stato del 12 dicembre ’69.

In questo impegno c’è stata di esempio la compagna di Pino che da quella tragica notte non ha cessato un attimo di lottare, sorretta dal proposito di consegnare alle figlie integra e bella la memoria del padre.

Se ora tutto il popolo sa – come disse Faccioli al processo di Milano – che «Calabresi è un assassino», lo dobbiamo anche alla forte volontà di Licia.

Nel momento in cui lo scandalo per il ributtante «caso Biotti» sollevato da Calabresi investe tutto l’apparato statale e minaccia di travolgerlo in un baratro di vergogne e di intrighi, nel momento in cui sembrava che non ci fosse più nessuna possibilità di ottenere l’apertura di quella tomba, Licia Pinelli non si arrende, attacca con energia gli aguzzini del compagno. Lo Stato dovrà piegarsi, ammettere la verità.

I sette accusati di omicidio

La denuncia è grave ma precisa, argomentata e suffragata da una lunga serie di prove obiettive. Omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona, abuso di ufficio e abuso di autorità; queste sono le accuse che investono Calabresi, Allegra, Lo Grano, Panessa, Mainardi, Caracuta, Mucilli.

Dobbiamo inoltre osservare che nell’esposto presentato al Procuratore Generale sono formulate violente critiche alla magistratura, le conclusioni con le quali Caizzi ed Amati decisero l’archiviazione sono definite «non solo scarsamente convincenti ma anche arbitrarie ed illegittime».

Visto che già un tribunale ha disposto una serie di accertamenti, l’inchiesta di Caizzi ed Amati è da considerarsi priva di ogni serietà ed attendibilità, inficiata da molte nullità procedurali e pertanto una indagine sul loro operato appare inevitabile.

le motivazioni essenziali della denuncia

Esaminiamo brevemente le argomentazioni più schiaccianti della denuncia, senza dilungarci nella cronaca già nota.

1 – «Pinelli fu trattenuto illegalmente in questura, non esisteva alcun indizio a suo carico, non era in stato di “fermo”.

I funzionari ricorsero a ogni genere di violenza morale ed a modalità arbitrarie, non consentite, contestando fatti e circostanze con la perfetta consapevolezza di dire cose false».

2 – Tutte le deposizioni dei funzionari implicati nella vicenda sono «confuse, incredibili, contraddittorie», gli orari non collimano, oscillano di diverse ore. Le versioni sono troppe, diverse e contrastanti. Tutti reticenti sull’esatto momento in cui accadde la tragedia.

3 – Dall’esame necroscopico condotto dai primi periti «risultano elementi di singolare rilievo e precisamente: l’esistenza di un segno di agopuntura alla piega del gomito, un’area ovolare di cm. 6 x 3 alla base del collo. Non è forse quella ipotesi del colpo di karatè – dice la denuncia -che è stata avanzata ripetutamente dalla stampa e che è stata accolta dal collegio giudicante del processo Baldelli-Calabresi il cui presidente avrebbe dichiarato: «Io e i giudici ci siamo convinti che il colpo di karatè sia stato dato ed abbia colpito il bulbo spinale»? Perchè non si è proceduto ad accertamenti sul segno di agopuntura, dal momento che Pinelli non stava praticando cure endovenose?

4 – Perchè non si effettuò, nè si permise di effettuare, accertamenti sui vestiti e sulla macchia ovolare? Perchè Calabresi ed Allegra si abbandonarono ad inammissibili abusi contestando a Pinelli una confessione di Valpreda che non era mai avvenuta ed accusando lo stesso Pinelli degli attentati del 25 aprile ben sapendo che era estraneo a quei fatti?

5 – Perchè è stata accettata ed avallata dalla magistratura, senza approfondite indagini, la versione poliziesca se ogni logica portava a ritenere che Pinelli era stato ucciso? «Esclusa l’ipotesi impossibile inverosimile inaccettabile del suicidio, dimostrato che Pinelli fu sottoposto ad un trattamento che è tutta una escalation di illegalità, arbitrii, reati, la sua morte non può che essere ascritta a tutti questi comportamenti, ciò significa che si tratta di un vero e proprio omicidio».

6 – «Di rado si è visto qualcosa di più aberrante… Poi il tribunale decide la perizia, per la superficialità ed incompletezza dei precedenti accertamenti, ma essa dovette apparire così pericolosa a Calabresi ed al suo difensore da indurli a compiere un atto gravissimo quale laricusazione del presidente del tribunale».

Vedremo qualcosa di ancor più aberrante?

I congiunti, fino ad ora caparbiamente esclusi dall’inchiesta ufficiale sulla morte del compagno Pinelli, avevano precedentemente convenuto in giudizio il ministero degli interni, ma il procedimento va per le lunghe, sembra insabbiato da una interminabile congerie di intralci burocratici.

A questo punto attendiamo che la magistratura si pronunci, decida se dar corso o meno all’esposto per i gravissimi reati. Francamente non vediamo come le autorità possano ulteriormente negare ai familiari il diritto di una inchiesta completa e seria, con tutte le garanzie.

Noi siamo convinti che consentiranno la esumazione del cadavere solo quando saranno assolutamente certi che ogni traccia del delitto sarà sparita, non un giorno prima.

Se la magistratura temporeggerà nel decidere od opporrà cavilli od ostacoli procedurali, sarà evidente che l’aberrazione più completa ottenebra il potere. Ma «l’estremo tentativo – che Licia Pinelli ha voluto compiere – nel nome del marito tragicamente privato della vita e nell’interesse delle bambine che hanno diritto almeno di vedere restituita al padre quella integrità morale e quella saldezza che conobbero in lui» (così conclude la denuncia) sarà riuscito ugualmente in pieno perchè nessuno potrà allora più dubitare che l’uccisione di Pinelli è un delitto di Stato perpetrato premeditatamente per coprire i responsabili della strage di Stato.

Comitato Politico Giuridico di Difese