Posts Tagged ‘Umberto Improta’

18 novembre 1970 G.I. Cudillo interroga Stefano Serpieri (fascista e spia del SID)

26 aprile 2013

Su viaggio in Grecia dei fascisti, sulla nascita del XXII marzo di Merlino, su incontro in Questura con Merlino e “altro giovane” (cioè l’infiltrato di P.S. Salvatore Ippolito) e su suo “non rapporto” con il SID

 

18 novembre 1970  Cudillo interroga Stefano Serpieri COMP

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

18 novembre 1970 G.I. Cudillo interroga Stefano Serpieri (fascista e spia del SID)

 

 

 

 

 

 

 

Umanità Nova n44 13 dicembre 2009 Chi si ricorda di Piazza Fontana? di Luciano Lanza

9 novembre 2011

Milano, 12 dicembre 1969, ore 16,37: un boato scuote il centro di Milano. Alla Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana è scoppiata una bomba. Risultato? Ben 17 morti e quasi un centinaio di feriti. Una strage, anzi la strage che segna la storia di questo Paese. La bomba di piazza Fontana non è l’unica a esplodere quel giorno. Un’altra viene ritrovata poco lontano nella sede della Banca commerciale in piazza della Scala. Per fortuna non è esplosa, verrà fatta brillare quattro ore dopo distruggendo prove importanti. Ma la sequenza esplosiva non si esaurisce a Milano. A Roma tra le 16,40 e le 16,55 in un corridoio sotterraneo della Banca nazionale del lavoro in via Veneto scoppia un’altra bomba che causa 14 feriti fra gli impiegati dell’istituto. Infine, dopo le 17,20 all’altare della patria in piazza Venezia, esplodono altri due ordigni di minore potenza. Quattro feriti.

Sono passati quarant’anni e di quella strage che cosa sappiamo? Tutto o quasi niente?

Torniamo a quel tragico dicembre.

Chi sono gli autori degli attentati? A Milano c’è chi ha già le idee chiare: è il prefetto Libero Mazza che nella sera del 12 invia un fonogramma a Mariano Rumor, presidente del consiglio: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza verso gruppi anarcoidi aut frange estremiste. Est già iniziata, previe intese autorità giudiziaria, vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili». Ed è quanto pensano anche i dirigenti dell’ufficio politico della Questura di Milano, Antonino  Allegra e il suo vicecommissario Luigi Calabresi: banche e altare della patria sono obiettivi anarchici o di estremisti di sinistra e agiscono di conseguenza. E, infatti, Calabresi va al Circolo anarchico di via Scaldasole, lì trova un anarchico, Sergio Ardau, poi arriva anche Giuseppe Pinelli che seguirà con il suo motorino la macchina con cui Calabresi porta in Questura Ardau. Pinelli, trattenuto illegalmente (il fermo di polizia era scaduto) uscirà la mezzanotte del 15 dicembre dalla stanza di Calabresi al quarto piano di via Fatebenefratelli precipitando dalla finestra.

Per quella morte non ci sono responsabili. I poliziotti che interrogavano Pinelli nella stanza di Calabresi vengono prosciolti il 27 ottobre 1975 dal giudice Gerardo D’Ambrosio, oggi senatore del Partito democratico. Pinelli muore, secondo la sentenza di D’Ambrosio, perché colpito da un «malore attivo». Pinelli non si accascia sul davanzale della porta-finestra, ma fa una sorta di balzo oltre il davanzale. Un malore che non ha precedenti nella storia della medicina legale.

Il «ballerino anarchico»

Sempre il 15 dicembre, alle 10,35, Pietro Valpreda, milanese trasferitosi a Roma, entra al Palazzo di giustizia di Milano. Deve essere interrogato dal giudice Antonio Amati per dei volantini contro il Papa. Quando esce dallo studio di Amati viene prelevato da due poliziotti. Breve interrogatorio in via Fatebenefratelli. Poi, colpo di scena, viene trasferito a Roma. Ad attenderlo c’è Umberto Improta, commissario della squadra politica e anni dopo questore di Milano. Il 16 dicembre Valpreda è sottoposto a un confronto «all’americana»: in mezzo ad alcuni poliziotti viene riconosciuto dal tassista Cornelio Rolandi. Prima del confronto Rolandi dichiara: «L’uomo di cui ho parlato è alto metri 1,70-1,75, età circa 40 anni, corporatura regolare, capelli scuri, occhi scuri, senza barba e senza baffi. Mi è stata mostrata dai carabinieri di Milano una fotografia che mi si è detto doveva essere la persona che io dovevo riconoscere. Mi sono state mostrate anche altre foto di altre persone». E Rolandi indica Valpreda. L’anarchico gli chiede di guardarlo meglio. Rolandi replica: «È lui. E se non è lui qui non c’è».

Con questa testimonianza, poi smontata dagli avvocati della difesa, viene creato il «mostro». Il giorno dopo tutti giornali titoleranno sul ballerino anarchico Valpreda accusato di strage.

In che cosa consiste la testimonianza di Rolandi? Alle quattro del pomeriggio del 12 dicembre avrebbe preso sul suo taxi, fermo al posteggio in piazza Beccaria un cliente che gli chiede di portarlo all’incrocio con via Santa Tecla. Lì gli dice di aspettarlo. Scende con una borsa nera, dopo poco ritorna e si fa accompagnare in via Albricci. Una cosa pazzesca: per risparmiarsi 135 metri a piedi ne avrebbe compiuti 234 fra andata e ritorno al taxi. Con in più il rischio di farsi riconoscere dal tassista.

La pista neonazista

Spostiamo l’inquadratura dall’asse Milano-Roma. A Vittorio Veneto. Un professore di nome Guido Lorenzon va dal suo avvocato, Alberto Steccanella. Lorenzon è agitato. A Steccanella riferisce di un colloquio avuto nel pomeriggio del 13 dicembre con l’amico Giovanni Ventura, che gli parla degli attentati del giorno prima mostrando conoscenze precise della dinamica e dei luoghi degli attentati. Tanto precise da lasciarlo impressionato. Insomma, Lorenzon confida all’avvocato di credere che l’amico sia coinvolto in quegli attentati. L’avvocato Steccanella porta un memoriale di Lorenzon al procuratore di Treviso, il giudice Pietro Calogero interroga Lorenzon, poi trasmette il tutto ai magistrati romani Ernesto Cudillo e Vittorio Occorsio. Questi interrogano sia Franco Freda sia Giovanni Ventura, ritengono che «Le accuse di Lorenzon sono destituite da qualsiasi fondamento», tanto che definiscono Ventura «una brava persona» e Freda «un galantuomo».

Facciamo un salto nel tempo. I giudici della Corte d’appello di Milano, il 12 marzo 2004, assolvono Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi (vedremo presto chi sono) dall’accusa per piazza Fontana, ma riconoscono che Giovanni Ventura e Franco Freda, già condannati a 15 anni per le bombe a Milano del 25 aprile, per le bombe sui treni fra l’8 e il 9 agosto dello stesso anno e per associazione sovversiva sono i responsabili anche della strage di piazza Fontana: «L’assoluzione di Freda e Ventura è un errore frutto di una conoscenza dei fatti superata dagli elementi raccolti in questo processo». E questo verrà confermato il 3 maggio 2005 dalla Cassazione, mettendo fine alla lunga sequenza di processi.

Il giudice Salvini indaga

Quanto sono durati i processi? Il primo inizia a Roma il 23 febbraio 1972, ma dopo poche udienze viene trasferito a Milano. Nel capoluogo lombardo non si tiene neppure un’udienza perché la Cassazione trasferisce il processo a Catanzaro. Bisognerà aspettare il 1975 perché partano le udienze nella città calabrese. La prima sentenza è del 1979: condannati all’ergastolo Freda, Ventura e Guido Giannettini per strage. Assolto per insufficienza di prove Valpreda. Nel 1980 la sentenza in appello: tutti assolti per piazza Fontana e nel 1987 la Cassazione conferma.

Ma nel gennaio 1989 il giudice istruttore (oggi giudice per le indagini preliminari) Guido Salvini apre una nuova inchiesta sull’eversione di destra e su piazza Fontana: il 13 marzo 1995 rinvia a giudizio molti militanti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, fra cui Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Il 30 giugno 1997 i tre vengono condannati all’ergastolo per piazza Fontana. Nel 2002 assolti in Appello e, infine, nel 2005 assolti dalla Cassazione.

Così si chiude con un nulla di fatto questa «storia infinita». Questa storia che ha visto coinvolti personaggi di primo piano della politica italiana, servizi segreti e apparati dello stato italiano. Apparati deviati si è sempre detto, mentre il giudice Salvini ha scritto: «La presenza di settori degli apparati statali, nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata “deviazione”, ma normale esercizio di una funzione istituzionale».

Realtà processuale e realtà storica, dunque, non coincidono. Ed è comprensibile: la verità storica (chi può dubitarne?) è quella che indicarono con precisione gli anarchici milanesi nella conferenza stampa del 17 dicembre 1969: «Pinelli è stato assassinato, Valpreda è innocente, la strage è di stato».

Luciano Lanza

A Rivista Anarchica N10 febbraio 1972 Fra un mese il processo A più di due anni dalla strage di stato a cura di E. M.

3 settembre 2011

A rivista anarchica n10 febbraio 1972   Valpreda in clinica

  L’11 gennaio 1972 il presidente della corte d’assise Rolando Falco dopo aver esaminato la relazione inviatagli dall’ispettore sanitario di Regina Coeli Giovanni Armaleo, ha disposto il  trasferimento di Pietro Valpreda nella clinica medica dell’Università di Roma.

 Stupisce tanta premura, la realtà è che la decisione è tardiva e strumentale. Quando fu arrestato, Valpreda fu descritto come un relitto umano a tal punto corroso dal morbo di Burger, da  essere costretto a prendere il taxi per  un percorso di 135 metri. Fu descritto come un uomo disperato, dilaniato dal male, privo delle dita dei piedi (da una a cinque, secondo le versioni).  Così insiste Cudillo nella S.I., per giustificare la incredibile storia del taxi di  Rolandi. Inspiegabilmente però, quando Valpreda a Regina Coeli comincia a soffrire di reali disturbi e chiede di  essere ricoverato e curato, gli si risponde che non ve ne è bisogno, che sta benissimo in cella. A nulla valgono le richieste della difesa, documentate da relazioni cliniche che non lasciano  dubbi sull’aggravarsi continuo delle sue condizioni. Secondo i medici di Regina Coeli il “relitto umano” è in piena salute, e solo dopo 16 mesi nell’aprile del ’71, viene trasferito nella fetida e  sotterranea infermeria del carcere, dove le sue condizioni non accennano a migliorare e le “cure” sono del tutto inadeguate. Il morbo di Burger è una malattia a decorso progressivo,  quando Valpreda entrò in carcere il “morbo” era in forma latente e non comportava nessuna limitazione fisica, dopo 2 anni di “cure” in carcere, la malattia si è fatta molto grave, tanto da  rappresentare un pericolo mortale. Questa è la verità che i rapporti clinici documentano, ed è esattamente il contrario di quanto si cerca di far credere. Volevano un relitto umano  colpevole di strage, hanno preso un innocente in buona salute e lo hanno ridotto in due anni di “trattamento” psico fisico. È una storia che evoca sinistri ricordi degli interrogatori e dei  processi della Russia di Stalin.

L’aula inagibile

Ora siamo vicini al 23 febbraio, e il giudice Falco non vuole lasciarsi sfuggire il più bel processo della sua carriera, quello dove dimostrerà ai “sovversivi” di tutti i colori e alla Nazione affamata di ordine che i sacerdoti in ermellino comandano ancora in Italia. Il processo si svolgerà (forse) nell’aula Magna del palazzo di Giustizia in piazzale Clodio cioè nell’aula che per la sua ristrettezza era stata scartata per prima. L’aula è stata definita, da chi l’ha vista, un bunker (sbarre alle finestre e porte murate), pericolosa per l’incolumità pubblica e contraria a tutte le regole vigenti per i pubblici locali. L’aula è una vera trappola, al minimo incidente si trasformerà in un serraglio, è un’aula che sembra fabbricata apposta per la provocazione. Il sistema si premunisce in anticipo. Al processo, in queste precarie condizioni, parteciperanno i giudici, gli imputati, parte degli avvocati della difesa (se vengono tutti non ci stanno), 18 giornalisti (anziché i 150 prevedibili) che si scriveranno reciprocamente sulla schiena in quanto hanno a disposizione 18 sedie e nemmeno un tavolo. Il pubblico (la costituzione stabilisce che ai processi partecipa il popolo) sarà composto da 50 poliziotti in borghese (di più non ci staranno) e i compagni staranno fuori, probabilmente fuori dal quartiere dove è situato il palazzo di Giustizia, che sarà trasformato in un accampamento di poliziotti e relativi mezzi gommati e cingolati sul tipo del “castro romano”. In queste condizioni la Giustizia si accinge ad eseguire il suo mandato. A meno che alla prima udienza l’aula non venga considerata inagibile (ed in effetti lo è) e tutto venga rimandato nella speranzosa attesa che la “terapia di Corelli” a cui Valpreda sarà sottoposto non funzioni. Rimandare non è una buona politica e sappiamo che i nodi verranno al pettine, ma quello che ci preoccupa sono le condizioni di Valpreda. Un uomo non può resistere chiuso in una cella, con il terrore dell’ergastolo con lo stillicidio dei rinvii, nella confusione politica dove l’omertà, le menzogne, la strumentalizzazione e il baratto trova tutti disponibili e compromessi, dove il sospetto e la provocazione serpeggia anche nelle espressioni della solidarietà più sincera filtrate attraverso la censura del carcere. Chi vuole che Valpreda e i suoi compagni siano degli eroi deve stare molto attento. Sacco e Vanzetti, fuori dalle mura della prigione sentivano l’appoggio e la solidarietà reale di milioni di persone, di tutta la sinistra politica e di un movimento realmente di massa. Valpreda, Gargamelli e Borghese, contano su pochi compagni e la sinistra ufficiale li ha già venduti.

Facciamo pure il processo sotterrati in un bunker. Se la pressione dell’opinione pubblica, del popolo e degli sfruttati ci sarà, quello non basterà a salvarli, se non ci sarà, sarà stata una precauzione inutile.

Di Cola sfida Occorsio

Il compagno Enrico Di Cola, rifugiatosi in Svezia dove ha chiesto l’asilo politico, ha indirizzato una particolareggiata lettera-denuncia, in data 10 gennaio c.a., all’ambasciata italiana di Stoccolma. Copia di tale lettera è stata anche inviata al consolato italiano di Stoccolma e alle procure di Roma e di Milano.

In tale lettera, il compagno Di Cola dopo aver ricordato che i carabinieri di Roma il 12-13 dicembre 1969 già erano a conoscenza dell’accusa che poi sarebbe stata elevata a carico di Pietro Valpreda (cfr. “A 9” “Parla l’ultimo latitante“), ricordato inoltre che il commissario di P.S. Umberto Improta si vantò che i poliziotti italiani in certe situazioni possono avere il grilletto facile, sfida la magistratura italiana a chiedere la sua estradizione. Infatti, perché l’estradizione possa venir concessa, la magistratura italiana si vedrebbe costretta a far giungere alla magistratura svedese competente gli atti del processo istruttorio per la strage di stato.

Il compagno Di Cola nella sua lettera-denuncia fa rilevare che purtroppo la magistratura italiana si trova nella disgraziata situazione di non poter richiedere la sua estradizione. La magistratura italiana non può permettersi il lusso di far conoscere alle magistrature di altri paesi i falsi che sono alla base dell’accusa elevata contro gli anarchici.

La lettera-denuncia del compagno di Cola è stata integralmente pubblicata nel nr.2 del settimanale anarchico “Umanità Nova”.

Compagni svedesi hanno provveduto a tradurre integralmente in svedese tale lettera che è stata poi inviata a tutti i quotidiani periodici svedesi politicamente impegnati.

Il compagno Di Cola si è poi recato personalmente al palazzo del governo di Stoccolma, per consegnare tale lettera al primo ministro svedese Olof Palme.

Dov’è Udo Lemke

Udo Lemke sembra essere scomparso. Il suo avvocato ha dichiarato di avere avuto solo rapporti scritti con lui e che un anno fa, essendo la sentenza diventata definitiva, ha troncato anche questi. Arrestato a Roma nel marzo 1970 sembra sia stato rinchiuso nelle Carceri giudiziarie di Perugia dove però attualmente non risulta detenuto.

La stessa ambasciata tedesca, interpellata, non ha saputo o voluto fornire spiegazioni. Nel marzo prossimo dovrebbe essere scarcerato avendo ottenuto un anno di condono.

Udo Lemke comparve sulla scena della strage di stato, il 12 dicembre 1969 presentandosi volontariamente come teste alla legione dei carabinieri di Roma. Lemke aveva riconosciuto in un fascista uno degli attentatori al monumento al milite ignoto. La sua deposizione viene rapidamente archiviata dai carabinieri inquirenti, ma in compenso si provvede, in maniera veramente romanzesca a rinchiudere il Lemke in una sicura prigione di stato. Il 12 gennaio l’autista romano Walter Palazzi si presenta al commissariato di Castro Pretorio affermando che un capellone da lui intravisto in un bar di piazza Navona, deve essere arrestato per furto. Secondo le dichiarazioni di Walter Palazzi, il capellone in questione si chiama Udo Lemke e commercia in stupefacenti. Il Walter Palazzi è anche a conoscenza dell’albergo nel quale il Lemke alloggia, e di quante persone dormano nella stessa stanza del Lemke. Il Lemke viene arrestato il giorno dopo, durante la perquisizione effettuata nella stanza abitata dal Lemke. Durante la perquisizione difatti, vengono rinvenuti, a detta dei poliziotti, dieci chilogrammi di hashish. Nel processo che ne segue il Lemke viene assolto dall’accusa originaria di furto, e condannato a tre anni per possesso di materiale stupefacente. Di notevole, oltre al fatto che non venne mai dimostrato come il Lemke potesse entrare in possesso di merce del valore di dieci milioni di lire, il valore dei dieci chili di hashish, va notato che il pubblico ministero al processo Lemke si chiamava Vittorio Occorsio, e che agli atti del processo non è mai stata depositata una perizia che dichiarasse che quello che i poliziotti romani qualificarono per hashish, fosse veramente hashish e non cenere cristallina di nessun valore. In ogni caso, la persona che sul caso Lemke ne doveva sapere in anticipo tanto quanto il volenteroso Walter Palazzi, è un certo Wolfang, l’unico che ebbe la possibilità di introdurre nella stanza del Lemke il famoso pacco di hashish. Il Wolfang, alla presenza dei poliziotti che lo avevano fermato, scomparve senza che nessuno cercasse di fermarlo.

Epidemia di giudici popolari

Francesco Paparozzi, 56 anni funzionario e attivista di un sindacato apolitico (?) è fino ad ora, l’unico che ha accettato la nomina a giudice popolare per il processo Valpreda sebbene ciò lo lasci “un po’ disorientato”.

Luigi Albano, 41 anni, tarantino, si dichiara affetto da “una grave forma di esaurimento nervoso”, mentre Renzo Parma, “terrorizzato da questo scherzo della sorte”, si è tappato in casa, tattica seguita anche da Carlo Mauro, 48 anni di Pomezia. Quanto agli altri, quelli che non stanno preparando certificati medici e scuse varie, si sono praticamente resi latitanti e facendo orecchie da mercante evitano perfino di rispondere in qualche modo alla chiamata (obbligatoria).

Il popolo ha il naso fino, i prescelti giudici popolari probabilmente non hanno letto “La Strage di Stato” e non sanno chi è Delle Chiaie, ma la puzza di marcio si sente da lontano…

A questo punto sarà necessario cercare altri giudici, ma la cosa si presenta complessa: chi non si occupa di politica, preferisce darsi ammalato; tra chi se ne occupa, gli anarchici e quelli di sinistra difficilmente entrano negli elenchi dei cittadini tra i 30 e i 65 anni di provata onestà e integrità morale, con diploma di scuola media e senza precedenti penali, restano gli altri… Ma di che si preoccupano? Non è forse la Giustizia libera e imparziale?

Persino l’intervista a Ciao 2001 era parte della trappola… secondo Cucchiarelli

10 marzo 2011

Come abbiamo già visto in altre parti di questo blog, analizzando e smantellando le manipolazioni e falsità del giornalista e novello inquisitore Cucchiarelli, tutta la costruzione del suo libro revisionista è  imperniata  sui racconti fantasiosi di vari squallidi personaggi di estrema destra e dei servizi segreti. Cioè le stesse persone, gli stessi ambienti, che stanno dietro la strage o che l’hanno coperta.

Se Cucchiarelli avesse scritto questo libro in buona fede, magari manipolato nelle sue convinzioni ma senza rendersene conto, allora ci saremmo aspettati che – come anche i giornalisti principianti sanno – almeno il principio base, deontologico di ogni giornalista, e cioè che una fonte, per essere valida, deve essere controllata e verificata, venisse applicato. Ma questo nel libro di Cucchiarelli non avviene mai, neppure quando una verifica sarebbe molto semplice da fare.

Il tentativo di riscrittura della storia messa in atto dal Cucchiarelli si basa essenzialmente sulla quantità di “documentazione” che butta alla rinfusa nel libro, per creare confusione e allo stesso tempo per dare l’impressione di aver svolto un grande lavoro di ricerca. D’altronde – avrà pensato il nostro – chi si prenderà mai  la briga di controllare la veridicità delle 700 pagine del libro? Purtroppo per lui, alcuni di noi sono ancora in vita e non disponibili a far passare le sue menzogne per verità storica.

Vediamo ad esempio il capitolo riguardante l’intervista che il circolo 22 marzo fece alla rivista Ciao 2001 e l’attendibilità dell’ “allora esponente dell’estrema destra” che viene da Cucchiarelli definito “fonte qualificata”.

 

Dal libro Il segreto di Piazza Fontana, pagg. 392-393 di Paolo Cucchiarelli:

“Durante i primi interrogatori dopo la strage, Merlino disse che il circolo era nato «quasi contestualmente» all’intervista.63 Ciao 2001 chiese al gruppo di stendere il suo programma, cosa che – dopo lunghe discussioni – avvenne. «La redazione pubblicò integralmente il testo, premise solo un’introduzione e una domanda, a scopo scandalistico: se avevamo dell`esplosivo».

Con i soldi ricevuti, si decise di prendere una cantina, in via del Governo Vecchio, che divenne la sede del circolo 22 marzo. La sede – come poteva essere diversamente! – era al numero 22. Ora tutto era pronto: il gruppo «anarchico» a cui sarebbe stata addossata la strage esisteva, aveva un suo programma nero su bianco, una sede, un nome, un’identità.

«Fino a quel momento non esisteva un nostro gruppo politico vero e proprio. Fu in questa occasione, visto che i pareri erano discordi sul nome con cui qualificarci nell’intervista, che decidemmo di chiamarci ‘22 marzo’: conoscevamo tutti il Maggio francese e l’antefatto di Nanterre del 22 marzo 1968» scrisse Valpreda, che anche dopo anni continuerà a sostenere che quella scelta fu del tutto libera, senza rotaie. Invece, persino l’intervista era parte della trappola.

L’articolo su Ciao 2001 – ricorda una nostra fonte qualificata, allora esponente dell’estrema destra – era stato scritto da Tonino Scaroni, caporedattore alla sezione Spettacolo del Tempo, il giornale dove lavorava il capo di ON, Pino Rauti. Non solo: Scaroni era anche il capo ufficio stampa di un cabaret di destra molto importante all’epoca, il Giardino dei supplizi. Al riguardo, la nostra fonte segnala: «Cera un triangolo ideativo della trappola, con tre punti di riferimento: la sede del settimanale Il Borghese in piazza Rondanini, il Giardino dei supplizi in via del Pozzo delle Cornacchie, e la sede del settimanale Lo Specchio, in via XX Settembre. Il giornale pubblicava i rapporti di Giannettini che questi girava al gruppo veneto per convincere la sinistra che si era prossimi al golpe. Tutto per spingere i gruppi ad agire».

«E chi era la mente?» oso chiedere.

«Molte, tutte molto fini» e qui cita un senatore, uno scrittore, una giornalista, un ex repubblichino «e probabilmente Umberto Federico D’Amato, grande archivista degli Affari riservati del Viminale, insieme a una parte rilevante dei carabinieri. Ma la guida di tutto, quella che lei chiama “la mente” era una semplice idea. Solo la Grande Provocazione avrebbe potuto far scattare la Grande Reazione».”

 

L’articolo-intervista a Ciao 2001 che abbiamo già pubblicato integralmente sul blog (Ciao 2001 n.43 del 19 novembre 1969 – Intervista/Documento collettivo prodotto dal circolo 22 marzo) in effetti non porta firma. Essendo un articolo non firmato la “fonte qualificata” dell’estrema destra usata da Cucchiarelli ha cercato di inserirsi nel gioco disinformativo. Infatti questo (ennesimo) misterioso e fantomatico personaggio ci rivela il nome del giornalista che avrebbe scritto il pezzo, cioè il giornalista del Tempo Tonino Scaroni. Grazie a questa “rivelazione”, attraverso Scaroni si può arrivare a Pino Rauti e così via “triangolando” e delirando.

Se credete che lo “studioso”, il “giornalista”, lo “storico” Cucchiarelli abbia fatto una sia pur minima ricerca per verificare le notizie che gli ha passato la sua “fonte” sbagliate di grosso.  Come possiamo affermare questo? Possiamo farlo perché abbiamo eseguito noi la verifica sulla veridicità della fonte. Abbiamo consultato i verbali di interrogatorio eseguiti dalla Questura e dai magistrati inquirenti dell’epoca, Cudillo e Occorsio, e trovato il nome di chi realmente scrisse l’articolo su Ciao 2001, verbale che qui sotto pubblichiamo integralmente.

Noi, ora, qualcosa sappiamo con certezza,:

Primo che non è Scaroni l’autore del pezzo, e quindi le teorie malevole della “fonte informata” si rivelano per quel che sono: opera di provocazione e disinformazione.

Secondo, siamo in grado di fare anche noi uno “scoop”, seppur vecchio di 42 anni, Siamo infatti in grado di fare il nome del vero (stavolta!) autore dell’articolo: si tratta di Daniele DEL GIUDICE.

Terzo che il libro di Cucchiarelli è un’accozzaglia di teorie basate sul nulla.

Verbale direttore responsabile Ciao 2001

 

Verbale n.1

Questura di Roma

L’anno millenovecentosessantanove addì 29 del mese di dicembre alle ore 18.50, nei locali dell’Ufficio Politico della Questura, in Roma.

Innanzi a noi sottoscritti ufficiali di P.G. Commissario di P.S. dott. Umberto IMPROTA e Brigadiere di P.S. Tomaso PUDDU, è presente il dott. Sergio MARCHETTI [seguono generalità]…..il quale interrogato risponde:

Sono giornalista-pubblicista e dal 1962 sono iscritto nell’albo di Roma; dal gennaio del 1969 sono direttore responsabile della redazione romana del settimanale “Ciao 2001”.

Nella mia qualità di responsabile di detto settimanale, in merito al servizio giornalistico apparso nei numeri 39, 40 e 43 rispettivamente del 22 ottobre, 29 ottobre e 19 novembre del corrente anno,posso precisare quanto appresso:

“Nella inchiesta condotta dal nostro giornale sui gruppi del dissenso, è stato trattato anche il movimento politico “22 marzo”. Come può rilevarsi dal numero 39 del citato settimanale, il “22 marzo” venne inserito tra i movimenti politici su posizioni politiche di estrema destra. Il servizio giornalistico in proposito fu redatto dal collaboratore Daniele DEL GIUDICE, il quale si avvalse delle notizie pubblicate dal settimanale “L’Espresso” del 22/12/1968. Infatti, egli, secondo quanto mi risulta, non era in possesso di altro materiale e notizie, all’infuori di quelle pubblicate dall’Espresso, per espletare il servizio in argomento. Come detto quindi sulle indicazioni dell’Espresso il gruppo “22 marzo” venne inquadrato tra quelli appartenenti all’estrema destra; ciò, pertanto, suscitò il risentimento degli iscritti al gruppo i quali venuti in redazione, si definirono anarchici e pretesero che il nostro giornali smentisse, nel numero successivo quanto pubblicato. Alla richiesta noi aderimmo e nel numero 40 del settimanale “Ciao 2001” pubblicammo la smentita precisando che il gruppo “22 marzo” raccoglieva elementi anarchici. Successivamente alcuni appartenenti al ripetuto “gruppo”, presero contatti con la redazione del giornale che io rappresento per realizzare un servizio fotografico e giornalistico sul loro movimento. Alla proposta dei predetti noi aderimmo stabilendo che avremmo compensato il gruppo mediante la somma di lire quarantamila. Il 23 ottobre, infatti, una diecina di appartenenti al “22 marzo”  vennero nella nostra sede redazionale ed ivi venne messo a punto il servizio giornalistico e fotografico già in precedenza concordato con alcuni di essi. Quanto detto e fotografato nella circostanza di cui sopra, è stato interamente pubblicato nel numero 43 del “Ciao 2001” del 19 novembre corrente anno.

A.D.R. Effettivamente l’articolo del numero 43 del nostro settimanale e riguardante il “22 marzo”, inizia con la domanda: “E’ vero che voi avete nei vostri magazzini armi ed esplosivo per portare a termine atti terroristici contro le istituzioni?”. La domanda fu posta in tali termini per una esigenza giornalistica e non perchè il nostro giornale aveva avuto notizie in merito all’attività terroristica del gruppo. Il tono della stessa lascia effettivamente supporre che il giornale fosse in possesso di notizie a riguardo, ma io posso assicurare che nulla sapevamo e sappiamo e che la domanda fu posta nei termini sopra detto esclusivamente per dare all’articolo pubblicato un maggiore rilievo ed una maggiore incisività. Tengo, inoltre, a precisare che alla nostra domanda i giovani risposero esattamente quanto abbiamo pubblicato nel surripetuto numero, ossia negativamente.

A.D.R. L’idea di fare una domanda così precisa in merito ad un eventuale detenzione di armi ed esplosivi, venne a me e fu da me personalmente posta ai giovani, in quanto sulla scorta di notizie giornalistiche pubblicate nel corrente anno su settimanali e quotidiani di ogni tipo di estrazione politica, si era pensato che i vari gruppi del dissenso potessero effettivamente essere detentori di materiale esplosivo e di armi e, pertanto, responsabili dei vari attentati consumati nelle numerose città italiane. Mi permetto, però, di far rilevare, a conferma del fatto che la prima domanda fu fatta esclusivamente per esigenze giornalistiche, che la stessa domanda è quanto mai ingenua, poiché anche se i giovani avessero avuto materiale del genere e programmi terroristici, essi non  avrebbero mai pubblicamente confessato e fatto pubblicare notizie a riguardo.

A.D.R.  Non ricordo se durante l’intervista fatta ai giovani del gruppo “22 marzo” da parte di alcuno di essi venne detto o fatto cenno a qualche punto programmatico del loro movimento che potesse far capire il modo in cui essi intendevano condurre la loro azione politica, specie per quanto riguarda eventuali azioni od atti di violenza. Ricordo, comunque, che furono fatti discorsi quanto mai teorici ed in sintesi essi sono stati integralmente riportati nel nostro articolo pubblicato sul numero 43 del settimanale in questione datato il 19.11.1969.

A.D.R. Confermo tutto quanto sopra dichiarato e ribadisco che nessuna altra notizia, all’infuori di quelle pubblicate e riguardante il gruppo “22 marzo”, è pervenuta al nostro giornale ed, in particolare, al collaboratore Daniele Del Giudice.

A.D.R. Non ho altro da aggiungere.

Letto, confermato e sottoscritto

 

Verbale n.2

 

2 maggio 1970

Avanti il dott. : Ernesto Cudillo -.G.I. – con l’intervento del P.M. Dr. Occorsio

E’ comparso Sergio Marchetti

Quindi, opportunamente interrogato, risponde: Sono direttore responsabile della rivista “Ciao 2001” confermo integralmente le dichiarazioni da me rese alla Questura di Roma ed il contenuto dell’intervista pubblicata sul n.43 del predetto settimanale.

Produco inoltre, a richiesta della S.V., n.25 fotografie scattate il 23 ottobre 1969 in occasione della venuta in redazione del gruppo “XXII marzo; preciso che le persone indicate con le lettere A, B e C nella fotografia n.7 sono appartenenti alla nostra redazione; ugualmente le persone raffigurate nella foto n.17 sotto le lettere A e B sono rispettivamente il sottoscritto ed il giornalista Daniele Del Giudice che ha partecipato all’intervista.

A.D.R.: Il testo, che figura come una intervista fu in realtà predisposto su un foglio dattiloscritto dagli aderenti al gruppo e dagli stessi a noi consegnato.

Esibisco in visione la quietanza datata 23 ottobre 1969 relativa alla consegna della somma di £. 40.000 “quale compenso e autorizzazione a pubblicare le relative foto” a firma di Mario Michele Merlino.

Preciso inoltre che, in un primo tempo, i partecipanti alla intervista ebbero a fornire i loro nominativi, ma subito dopo vollero strappare il relativo fog1io.

 

Umanita Nova 22 gennaio 1972 Lo Stato italiano accusato di strage. Enrico Di Cola dalla Svezia sfida la magistratura a chiedere la sua estradizione

17 febbraio 2010

Umanita Nova 22 gennaio 1972

Lo Stato italiano accusato di strage.

Enrico Di Cola dalla Svezia sfida la magistratura a chiedere la sua estradizione

Umanità Nova 22 gennaio 1972

Il sottoscritto Enrico Di Cola espone quanto segue:

Il 12 dicembre 1969 a seguito degli attentati terroristici di chia­ro carattere fascista messi con­temporaneamente in atto a Milano e a Roma, durante i quali 16 persone perdevano la vita e 106 persone rimanevano ferite, venivo fermato nella mia qualità di militante anarchico dai cara­binieri della stazione di via Men­tana a Roma.

Nel corso dell’interrogatorio seguito al fermo, interrogatorio guidata tra gli altri dai marescialli Fabbri, Catello e Vasco, mi veniva chiesto di dichiarare che il gruppo anarchica romano «22 marzo» era il responsabile degli attentati. Si cercò fra l’altro di farmi dichiarare che ave­vo visto partire da Roma per Milano, l’anarchico Pietro Valpreda. Secondo i carabinieri che mi interrogavano, io avrei do­vuto affermare che nell’automo­bile di proprietà di Valpreda a­vevo visto una scatola di carto­ne, di quelle comunemente usa­te per contenere scarpe, ripiena dl esplosivo.

Al mio rifiuta di avallare tali falsi, venni sottoposto a pesanti minacce alternate ad allettanti promesse. Fra l’altro mi venne assicurato che se avessi dichiarato delle circostanze e dei fatti che permettessero di legare Valpreda alla strage di Milano, non avrei avuto alcuna preoccupazione economica per il resto della mia vita.

Mi si disse che avrebbero potuto uccidermi

Fra le tante minacce che mi vennero fatte, debbo precisare che  mi  si  disse  che  loro mi avrebbero potuto uccidere in qualsiasi istante senza che mai nessuno venisse a conoscere la verità  sui  motivi  che  avevano provocato la mia morte. Mi venne testualmente detto: «Noi possiamo ucciderti in questa stanza e contemporaneamente affermare che sei già stato rilasciato. Nessuno si sogna di mettere in dubbio la nostra parola. Il tuo cadavere verrà ritrovato in una strada e la tua morte verrà fatta risalire ad un incidente stradale».

In tale clima di minacce e di promesse, mi venne richiesto fra l’altro di firmare un verbale in bianco. I carabinieri, o chi per loro, avrebbero poi provveduto a debitamente riempirlo.

E’ importante precisare che nella notte dal 12 al 13 dicembre 1969 i carabinieri che mi interrogavano erano a conoscenza non solo della avvenuta partenza di Valpreda per Milano, ma bensì sapevano anche che tale partenza era avvenuta alla presenza dell’anarchico Emilio Borghese, particolare questo che poteva essere a conoscenza della polizia e dei carabinieri solamente nel caso che Valpreda fosse stato costantemente pedinato nei giorni che precedettero la strage di Milano. Infatti mentre Valpreda venne arrestato solamente il 15 dicembre ed interrogato per la prima volta il 15 dicembre sera, Emilio Borghese veniva fermato ed interrogato solamente il 16 dicembre (…).

I carabinieri e la polizia conoscevano quindi tutti i movimenti che Valpreda aveva effettuato prima, durante e dopo gli attentati terroristici del 12 dicembre 1969, ed appunto per tale motivo sapendo che Valpreda non aveva nulla a che fare con gli attentati, cercarono immediatamente di estorcere dalle persone che gli erano state vicine, delle dichiarazioni che potessero legarlo alla strage.

Non fui l’unico ad essere minacciato e ricattato

Dagli atti allegati alla sentenza istruttoria per la strage di Mi­lano risulta che un teste venne ricattato dalla polizia estorcen­dogli dichiarazioni contro Valpreda. Il ricatto venne portato a termine con l’aiuto di una si­garetta drogata.

Dagli atti allegati alla senten­za istruttoria per la strage di Milano risulta che il cittadino tedesco Udo Werner Lemke, te­ste che scagionava Valpreda, ven­ne prima rinchiuso in un carce­re, poi trasferito in un manico­mio criminale, ed attualmente di lui non si sa più nulla. Nessuno è in grado di dire se egli è an­cora in vita o se invece è già morto.

Dagli atti allegati alla senten­za istruttoria per la strage di Milano risulta che una teste è stata ricattata dalla polizia per costringerla a deporre contro Pietro Valpreda.

Io non fui quindi l’unico ad es­sere minacciato e ricattato dalla polizia italiana.

Venni rilasciato, evidentemente per un errore di calcolo dei ca­rabinieri, il 13 dicembre sera. Nessuno poteva sospettare allora che sarei riuscito, dopo due anni, a raggiungere la Svezia. Avevo allora diciotto anni e la mia parola, nel clima politica creatosi in Italia dopo la strage di Milano, non sarebbe stata pre­sa in considerazione da nes­suno.

Il 16 dicembre appresi che lo anarchico Giuseppe Pinelli era stato suicidato nella questura di Milano e che l’anarchico Pietro Valpreda era stato arrestato. Io mi rendevo immediatamente ir­reperibile, e poche ore dopo i ca­rabinieri mi venivano a cercare.

«Lei rischia di non rivedere più vivo suo figlio…»

Nei giorni seguenti il commis­sario di polizia Umberto Im­prota venuto a cercarmi a casa, dichiarava a mia madre: «Signora, è meglio che lei ci dica dove suo figlio è nascosto, al­trimenti lei sa come queste cose vanno a finire. Noi organizzia­mo una battuta per rintracciar­lo, i poliziotti sono stanchi pos­sono sparare facilmente o possono picchiare un po’ troppo forte, e lei rischia di non rive­dere più suo figlio vivo».

Nel settembre del 1970 un’al­tra accusa veniva elevata a mio carico. Durante il 1969 mi ero procurato una pubblicazione regolarmente edita a cura della federazione giovanile di Livorno del PCI e regolarmente firmata dall’autore. In tale pubblicazio­ne erano elencate alcuni basi NATO stazionate in Italia. Era stata mia cura ricopiare in un quaderno tale elenco sequestrato dalla polizia durante una perqui­sizione a casa mia.

La polizia e la magistratura provvedevano ad aumentare i capi di accusa contro di me. Venivo infatti accusato di procacciamento di notizie delle quali è vietata la divulgazione.

E’ altamente istruttivo il modo con il quale la magistratura riuscì a montare tale accusa. Il magistrato che condusse l’inchiesta sulla strage di Milano avanza infatti l’umoristica ipotesi che l’opuscolo edito dalla federazione giovanile di Livorno del PCI sia stato scritto sulla base dei dati da me procacciati. Cioè un anarchico di diciassette anni sarebbe stato in grado di influenzare parte della politica editoriale del PCI. Va precisato che l’autore di tale opuscolo non è mai stato interrogato dal magistrato inquirente.

Bisogna ricordarsi infatti che subito dopo lo scoppio delle bombe di Milano e di Roma, mi ero rifiutato di deporre falso contro Valpreda. Inoltre, nessun indizio o prova esisteva contro di me. La polizia e la magistratura quindi sì trovarono costrette ad incolparmi di diversi possibili reati per avere la certezza di riuscire a farmi condannare, magari per un reato marginale. Tale condanna sarebbe poi stata interpretata dai mezzi di informazione, e quindi dall’opinione pubblica, come una indiretta dimostrazione della mia partecipazione agli attentati dinamitardi.

Seguito ad accumulare reati

Inoltre l’esistenza di una seconda denuncia aggravava la prima denuncia presentata ufficialmente contro di me il 5 febbraio 1970, tanto è vero che dal momento nel quale l’istruttoria per la strage di Milano veniva depositata, cioè dal marzo 1971, nessun giudice era più in grado di concedermi la libertà provvisoria, di revocare cioè il mandato di cattura spiccato contro di me il 5 gennaio, appunto perché al primo reato si era aggiunta l’aggravante del secondo reato del quale ero stato incolpato a partire dal settembre dello  stesso  anno.

L’8 ottobre del 1970 avrei dovuto rispondere alla prima chiamata di obbligo per il servizio militare di leva.

Indipendentemente dalle mie idee politiche, indipendentemente quindi dalle mie valutazioni sul servizio militare, se avessi ottemperato a tale chiamata, sarei stato  immediatamente  trasferito in carcere per i reati a me addebitati.

Non presentandomi alla chiamata sarebbe stata elevata contro di  me una terza accusa, quella di renitenza al servizio militare. Nel  giro di due anni senza che io nulla avessi commesso, la magistratura italiana è così riuscita ad accusarmi di tre precisi e distinti reati (..)

Ma…non vengo arrestato

Durante il periodo nel quale mi mantenni latitante in Italia, venni a più riprese avvicinato da elementi fascisti e della polizia.  In breve  risultò  evidente che la polizia italiana era a perfetta conoscenza dei miei occasionali nascondigli. Malgrado questo (…) nessuno tentò di arrestarmi. A tale modo di agire, si poteva trovare una sola spiegazione: la polizia cercava di mettere in atto contro di me una provocazione, cercava cioè di aggiungere un quarto reato, «possibilmente reale», ai tre reati  inesistenti  dei  quali ero già stato accusato. Resomi conto di quanto si andava preparando, decisi di lasciare clandestinamente l’Italia.

I particolari della fuga dall’Italia

Dagli atti della polizia svede­se della stazione di Lidingo in data 20 dicembre 1971, protocollo 274-A-2182-71, risulta che io sono entrato in Svezia l’8 no­vembre 1971 servendomi di un passaporto falso.

Tengo a precisare che non avevo a disposizione altro mez­zo per riuscire a scappare dall’Italia, ma pongo l’attenzione delle così dette competenti autorità italiane sulla circostanza che compiendo ciò che ho fatto, mi sono reso responsabile di almeno due precisi reati:

1) espatrio clandestino

2) procacciamento di docu­mento falso

Un terzo reato può eventual­mente essermi addebitato: falsi­ficazione in proprio di un documento ufficiale dello stato, il passaporto. Credo di avere elencato in modo chiaro e pre­ciso tutti i reati dei quali in que­sto momento io dovrei risponde­re di fronte alla magistratura italiana.

Divulgherò la verità

A tali reati, altri reati vanno però aggiunti.

Non va infatti nè dimenticato nè sottovalutato che nella presente lettera io accuso sia i ca­rabinieri di Roma che i magi­strati italiani inquirenti sulla strage del 12 dicembre 1969, di avere volutamente falsificato le indagini e di avere quindi, per dei precisi motivi politici, arre­stato ed accusato un innocente.

Tale reato viene aggravato per ogni giorno di mia permanenza all’estero poiché io farò quanto è nelle mie possibilità affinché i falsi della polizia e della magistratura italiana vengano portati a conoscenza di tutti quei cittadini stranieri con i quali verrò occasionalmente a contatto. Quindi a tale reato deve potersi riconoscere l’aggravante di una precisa offesa ad un generico onore nazionale che tali magistrati  e  poliziotti  dovrebbero rappresentare.

Non va inoltre dimenticato che parlando della morte di Giuseppe Pinelli, non ho detto «Pinelli  si  è  suicidato»,  ma  « Pinelli è stato suicidato», il che equivale ad affermare che Pinelli è stato assassinato.  Di tale assassinio accuso quei poliziotti italiani, e tale mia affermazione comporta automaticamente un reato in quanto i poliziotti italiani, secondo quanto specifica il codice fascista italiano, non sono degli assassini (…).

L’ambasciata italiana ha il dovere di denunciarmi

Faccio  quindi presente all’ambasciata d’Italia, in Svezia, che è suo dovere, per tutelare la facciata di rispettabilità delle istituzioni italiane presso la opinione pubblica  svedese, ed inoltre per suo preciso obbligo amministrativo, burocratico e persino giuridico, obblighi tutti sanciti da uno stipendio, comunicare immediatamente alle così dette competenti autorità italiane quanto segue:

1) che Enrico Di  Cola contro il quale è stato emesso il 5 gennaio 1970 un mandato di cattura per associazione a delinquere avendo preso parte alla organizzazione che secondo la magistratura italiana ha portato a termine gli attentati dinamitardi di Milano e di Roma del 12 dicembre 1969, si trova attualmente in Svezia.

2) che il nominato Enrico Di Cola è uscito dall’Italia clandestinamente

3) che dagli atti della polizia svedese risulta che Enrico Di Cola, per uscire dall’Italia, si è servito di un passaporto falso.

4) che è presumibile, o quanto meno pensabile, che tale documento sia stato falsificato dallo stesso Enrico Di Cola

5) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha chiesto al  governo svedese il diritto a godere dell’asilo politico

6) che chiedendo l’asilo politico, il su nominato Enrico Di Cola implicitamente afferma che in Italia la libertà è una barzelletta, e l’amministrazione della giustizia una tragica pagliacciata

7) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha accusato un corpo di polizia italiana, i carabinieri, di aver tentato di estorcergli false confessioni facendo ricorso a minacce fisiche e morali

8) che giunto in Svezia il su citato Enrico Di Cola ha dichiarato che un commissario della polizia italiana si è vantato che i poliziotti italiani possono avere il grilletto facile

9) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha dichiarato che la polizia italiana era a conoscenza con notevole anticipo, dell’indirizzo che sarebbe stato dato alle indagini  per  la  ricerca  dei responsabili della strage di Milano.

10) che giunto in Svezia il menzionato Enrico Di Cola ha dichiarato che sia la polizia che la magistratura italiane debbono oggettivamente ritenersi complici di coloro che hanno attuato la strage di Milano.

11) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha dichiarato che l’anarchico Giuseppe Pinelli non è caduto dalla finestra, ma è stato assassinato  dalla  polizia italiana.

La magistratura italiana avrebbe il dovere di chiedere la mia estradizione.

Le così dette competenti autorità italiane, debitamente avvertite dall’ambasciata d’Italia in Svezia, hanno a loro volta il dovere di comunicare alla magistratura italiana il rapporto ricevuto  dall’ambasciata d’Italia in Svezia.

A questo punto la magistratura italiana può scegliere tra due differenti modi di agire: attenersi ad un principio morale e giuridico affermato fra l’altro dal pubblico ministero nella inchiesta per la strage, principio che testualmente dice: «la magistratura  italiana non  è  ne’ schiava ne’ serva di nessuno», e  per  tanto  attenendosi  alla prassi giuridica internazionale, convalida i motivi che hanno deciso la mia incriminazione e richiede la mia estradizione. Per far questo però, deve presentare al competente tribunale svedese gli atti del processo istruttorio per la strage.

Come si sa, è prassi internazionale che il tribunale della nazione alla quale la estradizione viene richiesta esamini la fondatezza delle accuse in base alle quali la richiesta di estradizione si basa.

Purtroppo, una tale prassi non può venire seguita dalla magistratura italiana. Gli atti del processo istruttorio per la strage di Milano dimostrano in modo inequivocabile che tutta l’accusa contro gli attuali accusati si basa su falsi coscientemente costruiti.

Permettere ad un tribunale svedese di prendere atto dei falsi contenuti in tale  istruttoria, equivarrebbe mettere in condizioni il tribunale di un altro stato di emettere una sentenza giuridica,  politica  e  morale  sul comportamento di certi uomini che in Italia si fregiano del titolo di magistrati.

Permettere ad un tribunale straniero di prendere atto delle testimonianze di Cornelio Rolandi,  di  Paolo  Zanetov,  di  Carlo Melega, di Benito Bianchi, di Benito Nobili,  di  Bonaventura Provenza, di Luigi Calabresi, di Umberto Improta, di Antonino Allegra, vuol dire permettere ai tribunali di tutto il mondo libero di assolvere Valpreda in prima istanza, senza possibilità di appello per tutta la classe politica dirigente italiana, magistratura compresa.

L’autorità italiana non avrà il coraggio di agire contro di me

Quindi la magistratura Italiana, malgrado gli alti principii morali ai quali afferma di attenersi, non può chiedere la mia estradizione, e seguirà la seconda strada, l’unica possibilità che in realtà le si offre: ignorare che il ricercato Enrico Di Cola si trova in Svezia. Tale tattica si appoggia ad una prassi ormai collaudata.

Quando un ricercato chiede il diritto  di  asilo  politico, avanzando tale richiesta egli crea due precise situazioni:

a) la nazione che ha emesso il mandato di cattura evita di fare del chiasso sul ricercato per fare in modo che attorno alla sua figura non si crei un alone di notorietà che favorisca proprio ciò che non si desidera venga concesso: l’asilo politico.

Così agendo implicitamente invita la nazione alla quale la domanda di asilo è stata avanzata a seguire la stessa tattica, il silenzio, e nel silenzio permettere che la cosa venga messa a tacere. Dato che il diritto alla concessione a godere dell’asilo politico è una facoltà discrezionale riaffermante però l’assoluta indipendenza di giudizio di una nazione (il suo diritto politico ad esistere) meno interferenze vengono fatte, maggiormente tale diritto viene tacitamente riaffermato, e maggiori sono le probabilità che appunto per la mancanza di interferenze esterne lo asilo richiesto venga negato

Un precedente significativo

Proprio in Svezia, si è verificato il precedente dell’anarchico Sergio Ardau il quale nell’estate del 1970 aveva chiesto il diritto di asilo politico al governo svedese. Sei mesi dopo aver avanzato tale richiesta, gli anarchici italiani pretesero che Sergio Ardau ritornasse in Italia per deporre durante il processo che investigava sulle  cause  della morte di Giuseppe Pinelli.

Per screditare Sergio Ardau agli occhi del governo e del popolo svedese, la polizia e la magistratura italiane riuscirono a non accorgersi che Sergio Ardau si trattenne in Italia per il lungo periodo di sette giorni.

La tattica del silenzio era stata portata in tale caso alle sue estreme conseguenze, perche il magistrato che indagava sulla strage di Milano, alcuni mesi prima aveva fatto ricercare dalla  polizia,  proprio  l’anarchico Sergio Ardau;

b) la nazione che deve a sua volta concedere l’asilo, si trova quasi sempre nella tragica situazione di dover decidere senza avere  in  mano  gli  opportuni strumenti per poter valutare in pieno i fatti che hanno determinato la richiesta avanzata.

Nel caso in esame, per le istanze svedesi competenti, il ricercato Enrico Di Cola è un illustre sconosciuto.

Mi rendo conto per tanto, che poche speranze esistono teoricamente perché la richiesta da me avanzata venga accolta

Da un lato la magistratura italiana farà  il possibile per ignorare la mia presenza in Svezia, dall’altro lato il mio nome non dice nulla agli svedesi

Ma la mia richiesta di asilo non è mai stata la risultante di un caso strettamente personale. Io corro è vero il pericolo reale,  avallato  e  legalizzato da un mandato di cattura emesso dalla magistratura italiana di venire immediatamente incarcerato qualora venissi trasferito in Italia, ma malgrado questo il mio caso è soltanto la conseguenza di una situazione politica che opprime e colpisce non soltanto me, ma tutti indistintamente i cittadini italiani.

In Italia il fascismo è oggi una realtà

Nell’Italia attuale, il fascismo non è un possibile pericolo da paventare nel futuro. In Italia il fascismo è una realtà , oggi.

Lo dimostrano:

a) lo strapotere della polizia. Oltre duecentomila uomini in armi, pronti a soffocare, in qualsiasi  istante, con qualsiasi mezzo, uccidendo a colpi di mitra o scaraventando dalla finestra, ogni movimento di opinione. Operai, studenti, cattolici del dissenso, vengono giornalmente bastonati e privati del loro diritto costituzionale, politico ed umano non solo di dimostrare pacificamente  ma  persino di pensare liberamente;

b) l’esistenza, a ventisei anni dalla caduta dal fascismo di un codice di leggi creato dal fascismo, voluto dal  fascismo per permettere alla dittatura fascista di sovrapporsi al volere della popolazione. Contro l’abbattimento del codice di leggi fasciste, si sono ufficialmente dichiarati magistrati e persino la maggioranza del parlamento;

c) l’inesistenza di ogni legge o norma sociale che tuteli il lavoratore. Oltre dieci lavoratori muoiano giornalmente in Italia sui loro posti di lavoro, senza che nessuno si sia ancora azzardato a porre un fine a tali  assassini  legalizzati;

d) l’esistenza ufficiale e legalizzata di un partito fascista, il m.s.i.  che siede persino   in parlamento, partito con il cui appoggio, anche se non ufficialmente, è stato eletto l’ultimo presidente della repubblica italiana, l’uomo che dovrebbe rappresentare l’Italia nata dalla lotta antifascista;

e) la connivenza esistente a tutti i livelli, fra organizzazioni fasciste, magistrati poliziotti, e potere politico;

f) le dichiarazioni di alti ufficiali  dell’esercito, dichiarazioni con le quali si faceva sapere che se l’asse politico italiano dovesse spostarsi a sinistra, lo esercito si schiererebbe  a  destra.

La maggior parte di tali dati, sono documentati negli atti del processo istruttorio per la strage di Milano. E’ per tale motivo che io ho richiesto l’asilo politico in Svezia, per permettere cioè alla magistratura svedese e alla opinione pubblica svedese di documentarsi senza possibilità di errori sulla reale consistenza del fascismo italiano degli anni 70.

Il potere della magistratura

La magistratura italiana ha oggi il potere di far morire in carcere un innocente:  Pietro

Valpreda.

La magistratura italiana ha oggi il poter di rifiutarsi di ricercare i reali responsabili della strage di Milano.  La magistratura italiana ha oggi quindi anche il potere di ignorare la richiesta di asilo da me avanzata e di rifiutarsi quindi di richiedere la mia estradizione.

Ma la magistratura italiana ha il diritto di sapere che è mio dovere politico fare in modo che al di  fuori  dell’Italia  vengono conosciuti tutti i falsi, tutti i soprusi,  tutte  le violenze alle quali la magistratura e la polizia italiane hanno fatto ricorso per coprire i reali mandanti  della strage di Milano. Se la magistratura italiana non richiederà la mia estradizione, io personalmente, a mie spese, pubblicherò in Svezia gli atti del processo istruttorie per la strage di Milano.

Tengo a dichiarare che un gruppo di persone si è messo a disposizione per tradurre in svedese tutti gli atti di tale processo.

Stoccolma 10 gennaio 1972

14 Aprile 1970 Carcere di Regina Coeli Testo della lettera inviata da Pietro Valpreda alla Redazione di “Umanità Nova”

19 dicembre 2009

Giacomo Pacini http://www.facebook.com/profile.php?id=1507934871

Ricercatore Storia Contemporanea. Ha appena pubblicato per PROSPETTIVA EDITRICE, il suo primo libro dal titolo “Le organizzazioni paramilitari segrete nell’Italia Repubblicana”.

Ha scritto:

http://www.facebook.com/group.php?gid=111480141059

Di Cola, se posso permettermi una domanda; ma perchè Valpreda, anche a Catanzaro, ha sempre continuato a difendere Merlino?

Ieri alle 0.15 ·

La mia risposta:

da Strage di Stato, APPENDICE I

1) lettera di Pietro Valpreda dal carcere

Testo della lettera inviata da Pietro Valpreda alla Redazione di “Umanità Nova” (85)

Carcere di Regina Coeli

14 Aprile 1970

Cari compagni,

vi accludo queste note che credo vi potranno servire, anche perché‚ vedo da “Umanità Nuova” che dovete spulciare notizie da altri giornali… Fatene l’uso che credete meglio. In carcere per ora, malgrado la grande repressione, vedo solo anarchici.

Saluti e anarchia.

Pietro

A più di cinque mesi dall’inchiesta precostituita dagli organi del sistema nei nostri riguardi, vorrei puntualizzare alcuni punti e renderne noti altri alla parte più sensibile e cosciente dell’opinione pubblica, anche se credo doveroso aggiungere che diversi organi di stampa, che ci hanno affiancati e che potrei chiamare innocentisti, hanno abbracciato tale tesi più ai fini di una certa strumentalizzazione politica che per amore di verità o di giustizia. Ed è un certo settore della stampa, che il buon senso ed il pudore mi impediscono di chiamare organi di informazione, servi obbedienti dei vari gruppi di potere più reazionari del sistema, che hanno gettato il fango, il livore, la menzogna, l’odio, la diffamazione, con articoli da trivio, diretti contro i morti, contro di noi ed i nostri familiari, amici e compagni, onde screditare, con noi, il movimento anarchico in modo specifico e di riflesso tutta la sinistra in generale; vista fallita la loro manovra di manipolazione e di discredito, con l’infantilismo politico che li ha sempre contraddistinti, da bravi servi striscianti e obbedienti, tacciono.

Dove la strumentalizzazione politica è stata subito palese, fu nel cercare di provare nell’insinuazione che il nostro “gruppo anarchico 22 Marzo” era un gruppo ibrido, con elementi di destra. Si avanzò addirittura l’ipotesi di una… simbiosi fra anarchici e fascisti (si scrisse che gli estremi si toccano) come se si potessero fondere e conciliare la libertà e la dittatura. Tutta questa strumentalizzazione, solo ed esclusivamente per la premessa che un componente del gruppo, di provenienza fascista, frequentava ancora, a nostra insaputa, i suoi ex camerati: pertanto la tanto decantata simbiosi si risolve ad un contatto che era a noi tutti sconosciuto.

Dove la strumentalizzazione politica è ancora più evidente, è nei termini in cui si attaccano gli organi inquirenti che conducono (inteso nel senso di… manovrare) l’istruttoria nei nostri riguardi: attacchi portati non nel senso che l’accusa cercherebbe ogni mezzo legale e illegale per incriminare degli innocenti, ma che agirebbe in questa maniera per tendere a colpire i mandanti; è una disquisizione sottile, ma di importanza fondamentale; si passa perciò sulle nostre teste (con una chiara manovra politica) ipotizzando che potremmo anche essere colpevoli, ma, che saremmo solo dei semplici… pazzi esecutori.

Questa istruttoria, precostituita ad arte, copre non solo i mandanti, ma gli esecutori, i finanziatori, gli artificieri ed altri palesi interessati e… interessi. Perché se si sostiene e si scrive che su tutta l’inchiesta vi sono dubbi, ombre che fu quantomeno affrettata, unidirezionale, precostituita dall’inizio, condotta avanti stancamente con il riconoscimento falso, la delegazione di spie, l’intimidazione di testi, e pure con un buon margine di illegalità; ora essendo gli organi inquirenti autori di tutto questo, essendo pertanto i medesimi perfettamente al corrente di aver potuto incriminare degli innocenti, ricorrendo all’artifizio, non vedo come possano risalire ai mandanti partendo da noi. Mi sembra perciò abbastanza palese e logico che stiamo facendo solo da capro espiatorio: non si è voluto arrestare questi… per non risalire a quelli; tranne che non sia un nuovo metodo di indagine arrestare degli innocenti per risalire ai colpevoli.

Tutti sono unanimi nel sostenere la necessità di fare luce completa… sulla oscura morte del compagno Pinelli: tutti concordi che il nocciolo, che il marcio della questione sta là, che non si saprà mai la verità sugli attentati dinamitardi di Milano e Roma se prima non si saprà la verità sulla caduta di Pino. Ma i responsabili… della caduta, sono ancora ai loro posti, nessuna misura è stata presa nei loro confronti, l’omertà è stata tale da dare dei punti alla stessa mafia; si è praticamente permesso che i sospettati svolgessero una specie di indagine su loro stessi. Non solo, si è pure permesso, e si permette tutt’oggi, che i medesimi partecipassero all’indagine nei nostri confronti (ora si sa come) proprio a loro, che allontanare da sé i pesanti dubbi e indizi che li devono dimostrare a qualsiasi costo e con ogni mezzo che sia Pinelli sia noi siamo colpevoli; solo provando questo troverebbe un certo credito la tesi del suicidio di Pinelli. Se Pino è innocente, loro sono colpevoli, non esiste alternativa, e in tal senso hanno agito, hanno diffamato e accusato un morto, con dichiarazioni e comunicati che si sono dimostrati, alla prova dei fatti, completamente falsi; hanno costruito la falsa deposizione e il falso riconoscimento di Rolandi nei loro uffici, ed in seguito caduti e scoperti i loro falsi, hanno gettato, levandoselo di tasca, un vetrino il quale avrebbe dovuto apporre la mia firma sugli attentati; ma anche il sunnominato vetrino, come è stato ampiamente dimostrato era in loro possesso da molti mesi prima degli attentati, anzi avevano chili di vetrini colorati, con ampie libertà di scelta. Si vede che di fronte alla legge democratica, uguale per tutti, i nostri integerrimi poliziotti sono più uguali degli altri cittadini italiani: perché se nella loro identica situazione con le prove, gli indizi, le contraddizioni e le assurdità che vi sono state nel loro operato e nelle loro dichiarazioni si fossero invece trovati quattro impiegati o quattro metalmeccanici sarebbero stati immediatamente incriminati e incarcerati.

Ma forse il passato di sbirro al servizio della dittatura fascista, in quel di Ventotene, dei camerata Guida e e le specializzazioni, acquisite nelle scuole dei gorilla della C.I.A del socialdemocratico Calabresi, sono una garanzia sufficiente, tale da sollevare loro ed i loro accoliti da ogni ulteriore sospetto. Forse la nostra situazione può anche dipendere in parte dal fatto che nè dietro, nè sopra di noi, abbiamo o notabili, o gruppi o altro che ci appoggino.

Nell’incriminare tutti i familiari miei, hanno veramente toccato il fondo, incriminazione effettuata in spregio ad ogni obiettiva valutazione, valutazione mai applicata nei nostri confronti, ma tale prassi nazista non è stata usata neppure nei processi imbastiti dai colonnelli fascisti greci, nemmeno loro erano arrivati ad un tale grado di efferata infamia. Prima di incriminare, avrebbero dovuto appurare l’unica prova reale, la mia macchina, prima di dare credito a delle chiacchiere da caffè, ed assurgerle a dogma, avrebbero dovuto effettuare la perizia sulla macchina ed avrebbero avuto la dimostrazione tecnica che il mezzo meccanico non avrebbe potuto effettuare un tragitto così lungo e nel tempo addebitatomi (due periti della FIAT si sono rifiutati di partecipare alla loro commedia). Il mio meccanico di Roma, ha dichiarato che la mia 500 si trovava in pessimo stato, che la coppa dell’olio perdeva, che non aveva il motore truccato. Se a loro non bastavano le circostanziate e precise deposizioni dei miei familiari, per onestà professionale avrebbero dovuto, prima di prendere una decisione, effettuare tale perizia e possiamo essere certi che se avessero avuto solo una probabilità che tale perizia potesse risultare a loro favorevole, l’avrebbero richiesta subito e non avrebbero atteso cinque mesi. Non hanno tenuto in alcuna considerazione le dichiarazioni a loro contrarie, e cioè testimonianze di diversi miei colleghi del Jovinelli, i quali deposero o di non avermi visto, il giorno in cui l’accusa mi contesterebbe il viaggio a Roma, o di avermi notato in epoca poco precedente, come io sostenevo e sostengo. Angelo Fascetti si recò due volte per testimoniare a mio favore, davanti al giudice Cudillo, ma non riuscì a farsi ricevere.(86) Il Fascetti sarebbe il giovane moro, notato con me al bar Jovinelli, il 13 o il 14 dicembre ’69. Egli perciò voleva testimoniare quanto io sostenevo, che tale incontro avvenne diversi giorni prima di tale data, che i testimoni dell’accusa si erano sbagliati di data. A titolo di cronaca, debbo anche dire che uno dei tre testi dell’accusa, aveva alcuni contatti con la polizia, contatti che derivavano dal fatto che egli si interessava a procurare a terze persone, con una certa facilitazione e celerità, passaporti ed altri documenti.(87) Ermanna Ughetto, altro loro super teste (chissà poi perché tutti i testi dell’accusa sono super, quelli a difesa, o non sono credibili, o mentono, o vengono incriminati), colei che io avrei accompagnato a cena, in macchina, sempre la sera del 13 o del 14: dunque il loro ennesimo super teste, dopo gli attentati ai treni dell’agosto 1969. essendo una mia conoscente, fu interrogata diverse volte dalla polizia di Roma, subì diverse pressioni, fu minacciata che se non avesse collaborato e detto tutto ciò che sapeva su di me, le avrebbero reso la vita difficile tramite la squadra del buon costume.

Tale circostanza, l’affermò l’Ughetto medesima, in presenza di alcuni nostri comuni colleghi di teatro, i quali sicuramente potranno testimoniare in tal senso.(88)

Tralascerò di accennare alle pressioni che dovetti subire io. E’ però abbastanza sintomatico che tale teste abbia deposto quello che faceva comodo all’accusa ed in più ad oltre due mesi di distanza. Chiamai altri testimoni che potevano confermare le mie affermazioni, ma non mi risulta che siano stati citati. Accantonando le loro valutazioni sempre pregiudiziali, un fatto è positivo, io a Roma sarei stato visto prima in un bar e poi a un ristorante, questo è tutto, niente altro mi è stato contestato: pertanto il 13 e 14 dicembre scorso, io ero completamente libero di andare dove e con chi avessi voluto, non avrei commesso nessun reato a ritornare a Roma, con relativa cenetta a due, non sarei stato incriminato per questo; per quale assurda ragione avrei dovuto negare? (sono pure scapolo), che motivo avrei. avuto di crearmi un alibi a Milano in tal senso? Se mi fossi comportato come sostiene l’accusa. l’avrei dichiarato dall’inizio, era tutto nel mio interesse non dare adito a dubbio o altro. Invece tutto questo è solo un’altra prova che dimostra che ai miei moderni inquisitori non interessa per nulla la verità e la giustizia, ma solo riuscire a puntellare ad ogni costo con macroscopici indizi, le loro tesi da fantascienza. La loro manovra è servita solo ed esclusivamente ad incriminare un teste a mia difesa che diceva la verità, e cioè mia zia Torri Rachele.

Non potendo assassinare la verità di fronte, l’hanno colpita alle spalle, come è loro abitudine, questo e il loro contorto e viscido disegno cercano di dimostrare che i familiari di Valpreda possono aver mentito nei giorni 13 o 14 e di conseguenza potremmo sostenere che possono aver mentito anche il 12. Perché bisogna tener presente che mia zia conferma il mio alibi per il giorno 12, il quale non è per nulla in contrasto con le dichiarazioni dei testimoni del Jovinelli che riguardano invece il 13 o il 14… Anche qui l’accusa si è mostrata perfettamente coerente con i suoi metodi.

Passiamo ora al fantomatico deposito sulla via Tiburtina.(89) Deposito che consisterebbe in un buco. lo non sono responsabile di un sentito dire, o di una semplice dichiarazione fattami a voce che potrebbe risolversi solo in una chiacchiera, come in effetti avvenne. Sulla scorta di tale aleatoria affermazione, la polizia effettuò in mia presenza, un sopralluogo all’ottavo chilometro della via Tiburtina, nella notte dei 15 dicembre 1969. Tale sopralluogo dette esito negativo, ed in tale senso firmai un verbale negli uffici della questura politica: a tale riguardo vorrei precisare che la polizia affermò, abbastanza seccamente, che li avevo presi per i fondelli, che li avevo fatti girare a vuoto di notte, che li avevo condotti in un luogo dove io sapevo a priori che non vi era nulla, che loro non erano dei cretini e le solite frasi di circostanza che dicono tutti i poliziotti in tali situazioni. Poi invece diramarono ed allegarono agli atti un verbale di un commissario che aveva partecipato al sopralluogo notturno, in cui dichiarava di aver trovato un buco (allegata relativa foto del buco). Ora si cade nel ridicolo: sulla Tiburtina vi erano diversi buchi, me ne ricordo un paio, di cui uno quasi colmo di bottiglie vuote e di cocci di vetro. Sic.

La perizia balistica effettuata sui resti delle bombe, ha dimostrato che i congegni erano a tempo, con una specie di accensione a molla e per nulla a miccia: ma l’accusa strombazza su un pezzo di miccia reperito nell’abitazione di un compagno indiziato, e richiesta di perizia sulla medesima; (90) come dire che trovando un uomo colpito da una pallottola sparata da una rivoltella… effettuerebbe una perizia su di un coltello.

Ha fatto pure capolino lo spionaggio finché anche questo ennesimo bluff si è risolto con l’acclusione agli atti di… alcune poesie ed alcuni indirizzi di caserme, senz’altro reperibili su ogni guida telefonica.(91) Come sempre. l’insinuazione falsa è stata pubblicata a caratteri cubitali in prima pagina, e chiamiamola la smentita… due righe nelle pagine interne.

E vediamo per ultima la loro ulteriore scaltrissima mossa, che avrebbe dovuto, in parte, riuscire a puntellare e colmare in parte i loro vuoti e le loro ipotesi scaturite su premesse assurde: la cosiddetta perizia psico fisica nei miei, riguardi, onde appurare in primo luogo le mie capacità deambulatorie ed eventualmente giustificare l’assurdo… con la pazzia. Detta perizia è stata a me favorevole ed ha confermato la mia integrità psico-fisica: per cui eventualmente di tarate rimangono le sopraddette ipotesi e le loro origini. Ed è nuovamente sintomatico conoscere chi sia l’individuo che anche in questa circostanza avrebbe dichiarato che io soffrivo di crampi alle gambe.(92) Io frequentavo il sindacato ballerini e le regolari lezioni giornaliere di danza classica: decine di miei colleghi studiavano con me; il mio maestro da oltre un anno era Sabino Riva. Ebbene, tale dichiarazione l’accusa non l’ottenne da nessuno di loro, ma da un certo Andres, che aveva sostituito temporaneamente, negli ultimi tempi, il mio maestro. effettivo. Ora il sunnominato Andres è un profugo dell’Est, un rumeno il quale si trovava in Italia in una situazione precaria sia finanziariamente che legalmente, ed attendeva, fra l’altro, il visto d’ingresso negli Stati Uniti; ed è abbastanza strano che una parvenza di dichiarazione a loro favorevole sia stata rilasciata da un individuo che per la situazione sopraddetta, era idoneo ad essere maneggiato, a subire pressioni senza poter dire no, ed eventualmente ad altro. Un fatto è certo, che se il killer che effettuò la strage di P.zza Fontana usufruì veramente del taxi del super teste Rolandi, lo fece sapendo a priori che sarebbe stato ben coperto da alcuni organi, che non aveva nulla da temere a farsi riconoscere, perché un altro sarebbe stato riconosciuto e identificato al suo posto. Infatti si è dimostrato, con il suo comportamento, cinico, freddo, spietato, fors’anche paranoico… ma non un mongoloide mentale come a loro farebbe comodo.

Al rimanente dei compagni incriminati ingiustamente, non hanno potuto nemmeno contestare uno dei loro indizi fasulli; li hanno incriminati con delle supposizioni costruite su ipotesi: i compagni hanno alibi che li scagionano, non un solo indizio è emerso a loro carico: ma sono stati incarcerati perché così era stato deciso dall’alto, perché erano e sono anarchici. E gli organi inquirenti si sono affannati a indagare su chi pagava la pizza, su chi aveva contatti sessuali con una certa donna, su chi partecipava alle manifestazioni, come facevamo a pagare l’affitto della sede, in quale trattoria ci si recava a bere a Trastevere, chi scriveva sui muri, perché il tale non si è recato a un dato appuntamento, quanti gettoni occorrevano per telefonare a Milano. Non esisteva più la proporzione nè dei fatti, nè degli oggetti. A me personalmente sono arrivati a contestare pure due nomi di organi sessuali che avevano trovato scritti sul taccuino magnetico della mia macchina (era palese lo scherzo, non era nemmeno la mia grafia), sostenendo convinti che erano nomi convenzionali con cui si denominava… l’esplosivo. Qui siamo addirittura nella neurosi da sogno. Ma su tutti i loro interrogatori, che ho subito (credo di aver passato le 100 ore) dominava un interrogativo, la domanda sempre presente, ciò a cui premevano, perché si è ammazzato Pinelli? Sempre Pinelli… gli ipocriti.

Che la polizia avesse una spia nel gruppo, l’avevo non solo detto ma pure scritto diversi giorni prima degli attentati, però nè i compagni nè io eravamo riusciti ad individuarla.(93) Almeno su questo fatto assodato, non dovrebbero esistere speculazioni politiche di sorta, anche se ne sono state ventilate alcune. La spia non poté riferire nulla ai suoi degni padroni perché nulla vi era da riferire. La spia non riferì nulla, non perché non ne era al corrente, ma perché non vi era nulla di cui essere al corrente. Agì in seno al gruppo senza venire scoperta, fino al nostro arresto (e pure dopo) la polizia fu sempre al corrente di tutto, non solo dei nostri gesti, ma pure dei nostri discorsi: era al corrente della ragione di tale viaggio; e questo mi fu confermato da Improta, braccio destro di Provenza, lunedì 15 dicembre, quando fui tradotto da Milano a Roma, mediante un sequestro di persona. Appena giunto in questura mi interpellò con queste parole “Sapevamo, Pietro, che stamattina a Milano saresti andato al palazzo di giustizia per farti interrogare dal giudice Amati”. Non vi era proprio niente che loro non sapessero sul nostro gruppo.

Da quanto mi risulta, la polizia ebbe informazioni ben precise su quali erano le forze politiche da sorvegliare. La sinistra extraparlamentare era al corrente che vi era stata una riunione ad alto livello di estremisti di destra per azioni ben programmate, io ne accennai in una lettera all’avvocato Boneschi per cui un fatto del genere non potevano assolutamente ignorarlo.

Credo inutile ripetere a chi servivano le bombe, chi aveva interesse a gettare il discredito sulla sinistra, chi voleva spezzare le contestazioni, le rivendicazioni salariali, ecc., sono ormai argomenti detti, scritti e riscritti.

Come l’opinione pubblica ha potuto intravedere attraverso la cortina fumogena di falsità creata deliberatamente all’inizio dell’inchiesta, almeno una parte della verità, ne ha tratte subito le debite e logiche conclusioni: gli organi inquirenti di tali verità (e di molte altre) ne erano in possesso subito dopo i fatti di Roma e Milano, e poco tempo dopo. Hanno proseguito e proseguono in una direzione che sanno sbagliata. Perché?

NOTE:

(85) Chi è Pietro Valpreda? Per il “Secolo d’Italia” (19 dicembre) “una belva oscena e ripugnante, penetrata fino al midollo dalla lue comunista”; per “il Messaggero” (17 dicembre) “una belva umana mascherata da comparsa da quattro soldi”; per “La Nazione” (18 dicembre) “un mostro disumano”; per l’organo del PSU, L'”Umanità” (18 dicembre) “uno che odiava la borghesia al punto da gettare rettili nei teatri per terrorizzare gli spettatori”; per “Il Tempo” (18 dicembre) ” un pazzo sanguinario senza nessuno alle spalle”; ecc. Questo per la stampa di destra.

Per l'”Avanti!” (18 dicembre) è invece “un individuo morso dall’odio viscerale e fascistico per ogni forma di democrazia”; per “l’Unità” (19 dicembre) “un personaggio ambiguo e sconcertante dal passato oscuro, forse manovrato da qualcuno a proprio piacimento”.

Va detto, a parziale giustificazione dei due quotidiani di sinistra, che, subito dopo il suo arresto, da ambienti anarchici qualificati fu diffusa la notizia che da tempo si dubitava di lui: sul finire dell’estate al circolo Bakunin era giunta da Milano la segnalazione di tenerlo d’occhio. A quell’epoca alcuni anarchici milanesi del “Ponte della Ghisolfa” erano venuti a conoscenza del verbale d’interrogatorio di un loro compagno accusato degli attentati del 25 Aprile. Tra le varie domande rivoltegli dagli inquirenti una suonava presso a poco così: “E’ vero, come ci ha detto Valpreda, che una volta gli hai chiesto degli esplosivi?”. La cosa – con l’aggravante di una sospetta provocazione dovuta all’assoluta estraneità dell’anarchico ai fatti addebitatigli – venne segnalata a Roma. Solo a molti mesi di distanza, nel gennaio del ’70, gli anarchici milanesi – venuti a conoscenza di un secondo verbale – scopriranno che si era trattato di un equivoco. Il verbale si riferiva all’interrogatorio di A.D.E., svoltosi subito dopo gli attentati del 25 Aprile. Vi compariva la frase: “Valpreda una volta mi disse che x gli aveva chiesto se conosceva il modo di procurarsi degli esplosivi”. La dichiarazione di A.D.E., personaggio ambiguo che già gli anarchici consideravano con sospetto, venne attribuita dagli inquirenti, nel corso delle contestazioni mosse da x, a Pietro Valpreda, ed iscritta a verbale. Un vecchio trucco della polizia, che comunque, in questo caso, fece nascere sul conto di Valpreda una “voce” che, mai efficacemente smentita, ha ingenerato equivoci anche tra i militanti di sinistra. Alcuni dei quali sono tuttora convinti che egli, opportunamente “manovrato” dall’apparato, sia davvero l’esecutore materiale della strage di Piazza Fontana.

Chi è Pietro Valpreda non sta a noi giudicare. In una vicenda che coinvolge profondamente la classe operaia e i militanti rivoluzionari del nostro paese di lui c’interessa il ruolo che occupa nel disegno reazionario complessivo: e, più in particolare – come già per Giuseppe Pinelli nel contesto dell’inchiesta e dell’istruttoria, che di esso sono parti organiche e inalienabili. Per questo, dal momento che si tenta – con un’ultima grottesca scappatoia – di farlo passare per pazzo, ci sembra opportuno allegare a questa contro-indagine un documento da cui – se non altro si può evincere che le facoltà mentali di Pietro Valpreda – come del resto le sue capacità deambulatorie – sono in perfette condizioni.

Questa lettera è uscita da Regina Coeli clandestinamente, scavalcando la censura carceraria.

(86) Angelo Fascetti, nell’Aprile del ’70, è stato arrestato e incarcerato al termine di una manifestazione di solidarietà con Valpreda. I poliziotti lo hanno “selezionato” tra una ventina di altri anarchici presenti.

(87) Allude probabilmente a Armando Gageggi, un vecchio attore d’avanspettacolo che svolge questa attività per arrotondare la pensione.

(88) Esistono quattro testimonianze al proposito.

(89) L’esistenza del deposito di esplosivi fu segnalata alla polizia da Mario Merlino, il quale affermò di averne sentito parlare da Roberto Mander ed Emilio Borghese.

(90) La “miccia”, rinvenuta in casa di Roberto Mander durante una requisizione, è in realtà una di quelle cordicelle cerate che si usano per i “botti” di Capodanno.

(91) Allude al “quaderno musicale” sequestrato in casa di Enrico Di Cola, l’anarchico del 22 Marzo che, imputato di “associazione a delinquere”, ha preferito rendersi latitante. Su una pagina del quaderno erano stati segnati i nomi di alcune notissime basi NATO in Italia.

Quando la notizia fu comunicata alla stampa il quotidiano di sinistra “Paese-Serapubblicò un titolo a quattro colonne in prima pagina in cui si preannunciava, come probabile, un’inchiesta del S.I.D. in merito alla scoperta. Il 4 Gennaio 1970, dopo l’annuncio da parte del magistrato inquirente dott. Occorsio dell’incriminazione del Di Cola, il quotidiano dei M.S.I “Il Secolo d’Italia” scrisse: “Il passato criminale di Enrico Di Cola può essere sintetizzato nei seguenti punti:

1) andava spesso con Valpreda in pizzeria;

2) partecipò ad uno sciopero della fame davanti al Palazzo di Giustizia per protestare contro l’arresto di alcuni anarchici;

3) il pomeriggio dei 12 Dicembre ascoltò una conferenza nel circolo 22 Marzo.

Con simili prove il Di Cola può essere incriminato senza ombra di dubbio di concorso in strage o almeno di associazione a delinquere”.

(92) Com’è noto, subito dopo l’arresto di Valpreda e l'”uscita” del taxista Rolandi che dichiarò di averlo accompagnato davanti alla Banca dell’Agricoltura con la valigetta dell’esplosivo, fu diffusa immediatamente la voce dagli ambienti polizieschi che il ballerino era afflitto dal “morbo di Burger”. La malattia. che comporta la necrosi progressiva degli arti inferiori, lo avrebbe costretto a percorrere in taxi i 147 metri che separano l’edificio della banca dal punto dove Cornelio Rolandi afferma di averlo preso a bordo. I giornali scrissero che le malattia era “all’ultimo stadio”, che egli aveva già subito. “l’amputazione di varie dita dei piedi”, che di notte, in cella, “si rotolava gridando per il dolore agli arti inferiori”. Il 17 Dicembre “Il Messaggero” scrisse: “… minato dal morbo di Burger, che aveva stroncato le sue ambizioni di ballerino, Valpreda era un disperato che ha finito per trascinare e travolgere nel mostruoso disegno i compagni più giovani e inesperti”. Due persone – un anarchico che aveva partecipato con lui ad una marcia della pace di 70 km ed una, sua amica che aveva avuto occasione di osservarne poco tempo prima le dieci dita dei piedi – si recarono in questura per testimoniare ma gli dissero di ripassare. Un commissario della squadra politica, in vena di confidenze, disse ad un suo conoscente: “E’ una storia ridicola! Gli agenti che lo pedinavano tornavano in questura sfiancati”.

(93) Quando VaIpreda ha scritto la lettera, il nome dei poliziotto Salvatore Ippolito “in arte” anarchica Andrea Politi non era ancora stato reso noto. In varie occasioni, parlandone con il proprio avvocato o nelle lettere spedite dal carcere ai compagni, egli aveva espresso il dubbio che all’interno dei “22 Marzo” si fosse infiltrata una spia anche se non era in grado d’identificarla. L'”anarchico di Stato” dirà invece di non esser stato in grado di segnalare i preparativi della strage perché Valpreda e C., sospettando di lui, lo avevano emarginato e tenuto all’oscuro. In realtà egli continuerà a frequentare il circolo fino alla vigilia degli attentati ed anche in seguito. Quanto alle sue dichiarazioni relative all’incontro del 14 dicembre con Emilio Borghese, durante il quale questi gli avrebbe “confessato” la propria responsabilità, va messo in rilievo il comportamento improvviso dei giovane che, dopo aver tramato stragi alle sue spalle, una volta placata la sete di sangue si sarebbe affrettato a restituirgli piena fiducia. In realtà l’Ippolito era riuscito a mimetizzarsi egregiamente, e, semmai l’unica cosa che i suoi superiori potrebbero imputargli è l’eccesso di zelo. Infatti – a parte le proposte di attentati che, spesso e volentieri, rivolgeva ai “compagni” del 22 Marzo – il 15 novembre, nel corso della manifestazione antimperialista che si svolse a Roma, due militanti del Movimento Studentesco lo disarmarono mentre. impugnando una sbarra di ferro, si accingeva a sfasciare la vetrina di un negozio di abbigliamento.

A rivista anarchica n.10 1972 – Di Cola sfida Occorsio

27 novembre 2009

da: A rivista anarchica n.10 1972

A più di due anni dalla strage di stato

a cura di E. M.

Di Cola sfida Occorsio

Il compagno Enrico Di Cola, rifugiatosi in Svezia dove ha chiesto l’asilo politico, ha indirizzato una particolareggiata lettera-denuncia, in data 10 gennaio c.a., all’ambasciata italiana di Stoccolma. Copia di tale lettera è stata anche inviata al consolato italiano di Stoccolma e alle procure di Roma e di Milano.
In tale lettera, il compagno Di Cola dopo aver ricordato che i carabinieri di Roma il 12-13 dicembre 1969 già erano a conoscenza dell’accusa che poi sarebbe stata elevata a carico di Pietro Valpreda (cfr. “A 9” “Parla l’ultimo latitante”), ricordato inoltre che il commissario di P.S. Umberto Improta si vantò che i poliziotti italiani in certe situazioni possono avere il grilletto facile, sfida la magistratura italiana a chiedere la sua estradizione. Infatti, perché l’estradizione possa venir concessa, la magistratura italiana si vedrebbe costretta a far giungere alla magistratura svedese competente gli atti del processo istruttorio per la strage di stato.
Il compagno Di Cola nella sua lettera-denuncia fa rilevare che purtroppo la magistratura italiana si trova nella disgraziata situazione di non poter richiedere la sua estradizione. La magistratura italiana non può permettersi il lusso di far conoscere alle magistrature di altri paesi i falsi che sono alla base dell’accusa elevata contro gli anarchici.
La lettera-denuncia del compagno di Cola è stata integralmente pubblicata nel nr.2 del settimanale anarchico “Umanità Nova”.
Compagni svedesi hanno provveduto a tradurre integralmente in svedese tale lettera che è stata poi inviata a tutti i quotidiani periodici svedesi politicamente impegnati.
Il compagno Di Cola si è poi recato personalmente al palazzo del governo di Stoccolma, per consegnare tale lettera al primo ministro svedese Olof Palme.