Umanita Nova 22 gennaio 1972
Lo Stato italiano accusato di strage.
Enrico Di Cola dalla Svezia sfida la magistratura a chiedere la sua estradizione
- Umanità Nova 22 gennaio 1972
Il sottoscritto Enrico Di Cola espone quanto segue:
Il 12 dicembre 1969 a seguito degli attentati terroristici di chiaro carattere fascista messi contemporaneamente in atto a Milano e a Roma, durante i quali 16 persone perdevano la vita e 106 persone rimanevano ferite, venivo fermato nella mia qualità di militante anarchico dai carabinieri della stazione di via Mentana a Roma.
Nel corso dell’interrogatorio seguito al fermo, interrogatorio guidata tra gli altri dai marescialli Fabbri, Catello e Vasco, mi veniva chiesto di dichiarare che il gruppo anarchica romano «22 marzo» era il responsabile degli attentati. Si cercò fra l’altro di farmi dichiarare che avevo visto partire da Roma per Milano, l’anarchico Pietro Valpreda. Secondo i carabinieri che mi interrogavano, io avrei dovuto affermare che nell’automobile di proprietà di Valpreda avevo visto una scatola di cartone, di quelle comunemente usate per contenere scarpe, ripiena dl esplosivo.
Al mio rifiuta di avallare tali falsi, venni sottoposto a pesanti minacce alternate ad allettanti promesse. Fra l’altro mi venne assicurato che se avessi dichiarato delle circostanze e dei fatti che permettessero di legare Valpreda alla strage di Milano, non avrei avuto alcuna preoccupazione economica per il resto della mia vita.
Mi si disse che avrebbero potuto uccidermi
Fra le tante minacce che mi vennero fatte, debbo precisare che mi si disse che loro mi avrebbero potuto uccidere in qualsiasi istante senza che mai nessuno venisse a conoscere la verità sui motivi che avevano provocato la mia morte. Mi venne testualmente detto: «Noi possiamo ucciderti in questa stanza e contemporaneamente affermare che sei già stato rilasciato. Nessuno si sogna di mettere in dubbio la nostra parola. Il tuo cadavere verrà ritrovato in una strada e la tua morte verrà fatta risalire ad un incidente stradale».
In tale clima di minacce e di promesse, mi venne richiesto fra l’altro di firmare un verbale in bianco. I carabinieri, o chi per loro, avrebbero poi provveduto a debitamente riempirlo.
E’ importante precisare che nella notte dal 12 al 13 dicembre 1969 i carabinieri che mi interrogavano erano a conoscenza non solo della avvenuta partenza di Valpreda per Milano, ma bensì sapevano anche che tale partenza era avvenuta alla presenza dell’anarchico Emilio Borghese, particolare questo che poteva essere a conoscenza della polizia e dei carabinieri solamente nel caso che Valpreda fosse stato costantemente pedinato nei giorni che precedettero la strage di Milano. Infatti mentre Valpreda venne arrestato solamente il 15 dicembre ed interrogato per la prima volta il 15 dicembre sera, Emilio Borghese veniva fermato ed interrogato solamente il 16 dicembre (…).
I carabinieri e la polizia conoscevano quindi tutti i movimenti che Valpreda aveva effettuato prima, durante e dopo gli attentati terroristici del 12 dicembre 1969, ed appunto per tale motivo sapendo che Valpreda non aveva nulla a che fare con gli attentati, cercarono immediatamente di estorcere dalle persone che gli erano state vicine, delle dichiarazioni che potessero legarlo alla strage.
Non fui l’unico ad essere minacciato e ricattato
Dagli atti allegati alla sentenza istruttoria per la strage di Milano risulta che un teste venne ricattato dalla polizia estorcendogli dichiarazioni contro Valpreda. Il ricatto venne portato a termine con l’aiuto di una sigaretta drogata.
Dagli atti allegati alla sentenza istruttoria per la strage di Milano risulta che il cittadino tedesco Udo Werner Lemke, teste che scagionava Valpreda, venne prima rinchiuso in un carcere, poi trasferito in un manicomio criminale, ed attualmente di lui non si sa più nulla. Nessuno è in grado di dire se egli è ancora in vita o se invece è già morto.
Dagli atti allegati alla sentenza istruttoria per la strage di Milano risulta che una teste è stata ricattata dalla polizia per costringerla a deporre contro Pietro Valpreda.
Io non fui quindi l’unico ad essere minacciato e ricattato dalla polizia italiana.
Venni rilasciato, evidentemente per un errore di calcolo dei carabinieri, il 13 dicembre sera. Nessuno poteva sospettare allora che sarei riuscito, dopo due anni, a raggiungere la Svezia. Avevo allora diciotto anni e la mia parola, nel clima politica creatosi in Italia dopo la strage di Milano, non sarebbe stata presa in considerazione da nessuno.
Il 16 dicembre appresi che lo anarchico Giuseppe Pinelli era stato suicidato nella questura di Milano e che l’anarchico Pietro Valpreda era stato arrestato. Io mi rendevo immediatamente irreperibile, e poche ore dopo i carabinieri mi venivano a cercare.
«Lei rischia di non rivedere più vivo suo figlio…»
Nei giorni seguenti il commissario di polizia Umberto Improta venuto a cercarmi a casa, dichiarava a mia madre: «Signora, è meglio che lei ci dica dove suo figlio è nascosto, altrimenti lei sa come queste cose vanno a finire. Noi organizziamo una battuta per rintracciarlo, i poliziotti sono stanchi possono sparare facilmente o possono picchiare un po’ troppo forte, e lei rischia di non rivedere più suo figlio vivo».
Nel settembre del 1970 un’altra accusa veniva elevata a mio carico. Durante il 1969 mi ero procurato una pubblicazione regolarmente edita a cura della federazione giovanile di Livorno del PCI e regolarmente firmata dall’autore. In tale pubblicazione erano elencate alcuni basi NATO stazionate in Italia. Era stata mia cura ricopiare in un quaderno tale elenco sequestrato dalla polizia durante una perquisizione a casa mia.
La polizia e la magistratura provvedevano ad aumentare i capi di accusa contro di me. Venivo infatti accusato di procacciamento di notizie delle quali è vietata la divulgazione.
E’ altamente istruttivo il modo con il quale la magistratura riuscì a montare tale accusa. Il magistrato che condusse l’inchiesta sulla strage di Milano avanza infatti l’umoristica ipotesi che l’opuscolo edito dalla federazione giovanile di Livorno del PCI sia stato scritto sulla base dei dati da me procacciati. Cioè un anarchico di diciassette anni sarebbe stato in grado di influenzare parte della politica editoriale del PCI. Va precisato che l’autore di tale opuscolo non è mai stato interrogato dal magistrato inquirente.
Bisogna ricordarsi infatti che subito dopo lo scoppio delle bombe di Milano e di Roma, mi ero rifiutato di deporre falso contro Valpreda. Inoltre, nessun indizio o prova esisteva contro di me. La polizia e la magistratura quindi sì trovarono costrette ad incolparmi di diversi possibili reati per avere la certezza di riuscire a farmi condannare, magari per un reato marginale. Tale condanna sarebbe poi stata interpretata dai mezzi di informazione, e quindi dall’opinione pubblica, come una indiretta dimostrazione della mia partecipazione agli attentati dinamitardi.
Seguito ad accumulare reati
Inoltre l’esistenza di una seconda denuncia aggravava la prima denuncia presentata ufficialmente contro di me il 5 febbraio 1970, tanto è vero che dal momento nel quale l’istruttoria per la strage di Milano veniva depositata, cioè dal marzo 1971, nessun giudice era più in grado di concedermi la libertà provvisoria, di revocare cioè il mandato di cattura spiccato contro di me il 5 gennaio, appunto perché al primo reato si era aggiunta l’aggravante del secondo reato del quale ero stato incolpato a partire dal settembre dello stesso anno.
L’8 ottobre del 1970 avrei dovuto rispondere alla prima chiamata di obbligo per il servizio militare di leva.
Indipendentemente dalle mie idee politiche, indipendentemente quindi dalle mie valutazioni sul servizio militare, se avessi ottemperato a tale chiamata, sarei stato immediatamente trasferito in carcere per i reati a me addebitati.
Non presentandomi alla chiamata sarebbe stata elevata contro di me una terza accusa, quella di renitenza al servizio militare. Nel giro di due anni senza che io nulla avessi commesso, la magistratura italiana è così riuscita ad accusarmi di tre precisi e distinti reati (..)
Ma…non vengo arrestato
Durante il periodo nel quale mi mantenni latitante in Italia, venni a più riprese avvicinato da elementi fascisti e della polizia. In breve risultò evidente che la polizia italiana era a perfetta conoscenza dei miei occasionali nascondigli. Malgrado questo (…) nessuno tentò di arrestarmi. A tale modo di agire, si poteva trovare una sola spiegazione: la polizia cercava di mettere in atto contro di me una provocazione, cercava cioè di aggiungere un quarto reato, «possibilmente reale», ai tre reati inesistenti dei quali ero già stato accusato. Resomi conto di quanto si andava preparando, decisi di lasciare clandestinamente l’Italia.
I particolari della fuga dall’Italia
Dagli atti della polizia svedese della stazione di Lidingo in data 20 dicembre 1971, protocollo 274-A-2182-71, risulta che io sono entrato in Svezia l’8 novembre 1971 servendomi di un passaporto falso.
Tengo a precisare che non avevo a disposizione altro mezzo per riuscire a scappare dall’Italia, ma pongo l’attenzione delle così dette competenti autorità italiane sulla circostanza che compiendo ciò che ho fatto, mi sono reso responsabile di almeno due precisi reati:
1) espatrio clandestino
2) procacciamento di documento falso
Un terzo reato può eventualmente essermi addebitato: falsificazione in proprio di un documento ufficiale dello stato, il passaporto. Credo di avere elencato in modo chiaro e preciso tutti i reati dei quali in questo momento io dovrei rispondere di fronte alla magistratura italiana.
Divulgherò la verità
A tali reati, altri reati vanno però aggiunti.
Non va infatti nè dimenticato nè sottovalutato che nella presente lettera io accuso sia i carabinieri di Roma che i magistrati italiani inquirenti sulla strage del 12 dicembre 1969, di avere volutamente falsificato le indagini e di avere quindi, per dei precisi motivi politici, arrestato ed accusato un innocente.
Tale reato viene aggravato per ogni giorno di mia permanenza all’estero poiché io farò quanto è nelle mie possibilità affinché i falsi della polizia e della magistratura italiana vengano portati a conoscenza di tutti quei cittadini stranieri con i quali verrò occasionalmente a contatto. Quindi a tale reato deve potersi riconoscere l’aggravante di una precisa offesa ad un generico onore nazionale che tali magistrati e poliziotti dovrebbero rappresentare.
Non va inoltre dimenticato che parlando della morte di Giuseppe Pinelli, non ho detto «Pinelli si è suicidato», ma « Pinelli è stato suicidato», il che equivale ad affermare che Pinelli è stato assassinato. Di tale assassinio accuso quei poliziotti italiani, e tale mia affermazione comporta automaticamente un reato in quanto i poliziotti italiani, secondo quanto specifica il codice fascista italiano, non sono degli assassini (…).
L’ambasciata italiana ha il dovere di denunciarmi
Faccio quindi presente all’ambasciata d’Italia, in Svezia, che è suo dovere, per tutelare la facciata di rispettabilità delle istituzioni italiane presso la opinione pubblica svedese, ed inoltre per suo preciso obbligo amministrativo, burocratico e persino giuridico, obblighi tutti sanciti da uno stipendio, comunicare immediatamente alle così dette competenti autorità italiane quanto segue:
1) che Enrico Di Cola contro il quale è stato emesso il 5 gennaio 1970 un mandato di cattura per associazione a delinquere avendo preso parte alla organizzazione che secondo la magistratura italiana ha portato a termine gli attentati dinamitardi di Milano e di Roma del 12 dicembre 1969, si trova attualmente in Svezia.
2) che il nominato Enrico Di Cola è uscito dall’Italia clandestinamente
3) che dagli atti della polizia svedese risulta che Enrico Di Cola, per uscire dall’Italia, si è servito di un passaporto falso.
4) che è presumibile, o quanto meno pensabile, che tale documento sia stato falsificato dallo stesso Enrico Di Cola
5) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha chiesto al governo svedese il diritto a godere dell’asilo politico
6) che chiedendo l’asilo politico, il su nominato Enrico Di Cola implicitamente afferma che in Italia la libertà è una barzelletta, e l’amministrazione della giustizia una tragica pagliacciata
7) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha accusato un corpo di polizia italiana, i carabinieri, di aver tentato di estorcergli false confessioni facendo ricorso a minacce fisiche e morali
8) che giunto in Svezia il su citato Enrico Di Cola ha dichiarato che un commissario della polizia italiana si è vantato che i poliziotti italiani possono avere il grilletto facile
9) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha dichiarato che la polizia italiana era a conoscenza con notevole anticipo, dell’indirizzo che sarebbe stato dato alle indagini per la ricerca dei responsabili della strage di Milano.
10) che giunto in Svezia il menzionato Enrico Di Cola ha dichiarato che sia la polizia che la magistratura italiane debbono oggettivamente ritenersi complici di coloro che hanno attuato la strage di Milano.
11) che giunto in Svezia, Enrico Di Cola ha dichiarato che l’anarchico Giuseppe Pinelli non è caduto dalla finestra, ma è stato assassinato dalla polizia italiana.
La magistratura italiana avrebbe il dovere di chiedere la mia estradizione.
Le così dette competenti autorità italiane, debitamente avvertite dall’ambasciata d’Italia in Svezia, hanno a loro volta il dovere di comunicare alla magistratura italiana il rapporto ricevuto dall’ambasciata d’Italia in Svezia.
A questo punto la magistratura italiana può scegliere tra due differenti modi di agire: attenersi ad un principio morale e giuridico affermato fra l’altro dal pubblico ministero nella inchiesta per la strage, principio che testualmente dice: «la magistratura italiana non è ne’ schiava ne’ serva di nessuno», e per tanto attenendosi alla prassi giuridica internazionale, convalida i motivi che hanno deciso la mia incriminazione e richiede la mia estradizione. Per far questo però, deve presentare al competente tribunale svedese gli atti del processo istruttorio per la strage.
Come si sa, è prassi internazionale che il tribunale della nazione alla quale la estradizione viene richiesta esamini la fondatezza delle accuse in base alle quali la richiesta di estradizione si basa.
Purtroppo, una tale prassi non può venire seguita dalla magistratura italiana. Gli atti del processo istruttorio per la strage di Milano dimostrano in modo inequivocabile che tutta l’accusa contro gli attuali accusati si basa su falsi coscientemente costruiti.
Permettere ad un tribunale svedese di prendere atto dei falsi contenuti in tale istruttoria, equivarrebbe mettere in condizioni il tribunale di un altro stato di emettere una sentenza giuridica, politica e morale sul comportamento di certi uomini che in Italia si fregiano del titolo di magistrati.
Permettere ad un tribunale straniero di prendere atto delle testimonianze di Cornelio Rolandi, di Paolo Zanetov, di Carlo Melega, di Benito Bianchi, di Benito Nobili, di Bonaventura Provenza, di Luigi Calabresi, di Umberto Improta, di Antonino Allegra, vuol dire permettere ai tribunali di tutto il mondo libero di assolvere Valpreda in prima istanza, senza possibilità di appello per tutta la classe politica dirigente italiana, magistratura compresa.
L’autorità italiana non avrà il coraggio di agire contro di me
Quindi la magistratura Italiana, malgrado gli alti principii morali ai quali afferma di attenersi, non può chiedere la mia estradizione, e seguirà la seconda strada, l’unica possibilità che in realtà le si offre: ignorare che il ricercato Enrico Di Cola si trova in Svezia. Tale tattica si appoggia ad una prassi ormai collaudata.
Quando un ricercato chiede il diritto di asilo politico, avanzando tale richiesta egli crea due precise situazioni:
a) la nazione che ha emesso il mandato di cattura evita di fare del chiasso sul ricercato per fare in modo che attorno alla sua figura non si crei un alone di notorietà che favorisca proprio ciò che non si desidera venga concesso: l’asilo politico.
Così agendo implicitamente invita la nazione alla quale la domanda di asilo è stata avanzata a seguire la stessa tattica, il silenzio, e nel silenzio permettere che la cosa venga messa a tacere. Dato che il diritto alla concessione a godere dell’asilo politico è una facoltà discrezionale riaffermante però l’assoluta indipendenza di giudizio di una nazione (il suo diritto politico ad esistere) meno interferenze vengono fatte, maggiormente tale diritto viene tacitamente riaffermato, e maggiori sono le probabilità che appunto per la mancanza di interferenze esterne lo asilo richiesto venga negato
Un precedente significativo
Proprio in Svezia, si è verificato il precedente dell’anarchico Sergio Ardau il quale nell’estate del 1970 aveva chiesto il diritto di asilo politico al governo svedese. Sei mesi dopo aver avanzato tale richiesta, gli anarchici italiani pretesero che Sergio Ardau ritornasse in Italia per deporre durante il processo che investigava sulle cause della morte di Giuseppe Pinelli.
Per screditare Sergio Ardau agli occhi del governo e del popolo svedese, la polizia e la magistratura italiane riuscirono a non accorgersi che Sergio Ardau si trattenne in Italia per il lungo periodo di sette giorni.
La tattica del silenzio era stata portata in tale caso alle sue estreme conseguenze, perche il magistrato che indagava sulla strage di Milano, alcuni mesi prima aveva fatto ricercare dalla polizia, proprio l’anarchico Sergio Ardau;
b) la nazione che deve a sua volta concedere l’asilo, si trova quasi sempre nella tragica situazione di dover decidere senza avere in mano gli opportuni strumenti per poter valutare in pieno i fatti che hanno determinato la richiesta avanzata.
Nel caso in esame, per le istanze svedesi competenti, il ricercato Enrico Di Cola è un illustre sconosciuto.
Mi rendo conto per tanto, che poche speranze esistono teoricamente perché la richiesta da me avanzata venga accolta
Da un lato la magistratura italiana farà il possibile per ignorare la mia presenza in Svezia, dall’altro lato il mio nome non dice nulla agli svedesi
Ma la mia richiesta di asilo non è mai stata la risultante di un caso strettamente personale. Io corro è vero il pericolo reale, avallato e legalizzato da un mandato di cattura emesso dalla magistratura italiana di venire immediatamente incarcerato qualora venissi trasferito in Italia, ma malgrado questo il mio caso è soltanto la conseguenza di una situazione politica che opprime e colpisce non soltanto me, ma tutti indistintamente i cittadini italiani.
In Italia il fascismo è oggi una realtà
Nell’Italia attuale, il fascismo non è un possibile pericolo da paventare nel futuro. In Italia il fascismo è una realtà , oggi.
Lo dimostrano:
a) lo strapotere della polizia. Oltre duecentomila uomini in armi, pronti a soffocare, in qualsiasi istante, con qualsiasi mezzo, uccidendo a colpi di mitra o scaraventando dalla finestra, ogni movimento di opinione. Operai, studenti, cattolici del dissenso, vengono giornalmente bastonati e privati del loro diritto costituzionale, politico ed umano non solo di dimostrare pacificamente ma persino di pensare liberamente;
b) l’esistenza, a ventisei anni dalla caduta dal fascismo di un codice di leggi creato dal fascismo, voluto dal fascismo per permettere alla dittatura fascista di sovrapporsi al volere della popolazione. Contro l’abbattimento del codice di leggi fasciste, si sono ufficialmente dichiarati magistrati e persino la maggioranza del parlamento;
c) l’inesistenza di ogni legge o norma sociale che tuteli il lavoratore. Oltre dieci lavoratori muoiano giornalmente in Italia sui loro posti di lavoro, senza che nessuno si sia ancora azzardato a porre un fine a tali assassini legalizzati;
d) l’esistenza ufficiale e legalizzata di un partito fascista, il m.s.i. che siede persino in parlamento, partito con il cui appoggio, anche se non ufficialmente, è stato eletto l’ultimo presidente della repubblica italiana, l’uomo che dovrebbe rappresentare l’Italia nata dalla lotta antifascista;
e) la connivenza esistente a tutti i livelli, fra organizzazioni fasciste, magistrati poliziotti, e potere politico;
f) le dichiarazioni di alti ufficiali dell’esercito, dichiarazioni con le quali si faceva sapere che se l’asse politico italiano dovesse spostarsi a sinistra, lo esercito si schiererebbe a destra.
La maggior parte di tali dati, sono documentati negli atti del processo istruttorio per la strage di Milano. E’ per tale motivo che io ho richiesto l’asilo politico in Svezia, per permettere cioè alla magistratura svedese e alla opinione pubblica svedese di documentarsi senza possibilità di errori sulla reale consistenza del fascismo italiano degli anni 70.
Il potere della magistratura
La magistratura italiana ha oggi il potere di far morire in carcere un innocente: Pietro
Valpreda.
La magistratura italiana ha oggi il poter di rifiutarsi di ricercare i reali responsabili della strage di Milano. La magistratura italiana ha oggi quindi anche il potere di ignorare la richiesta di asilo da me avanzata e di rifiutarsi quindi di richiedere la mia estradizione.
Ma la magistratura italiana ha il diritto di sapere che è mio dovere politico fare in modo che al di fuori dell’Italia vengono conosciuti tutti i falsi, tutti i soprusi, tutte le violenze alle quali la magistratura e la polizia italiane hanno fatto ricorso per coprire i reali mandanti della strage di Milano. Se la magistratura italiana non richiederà la mia estradizione, io personalmente, a mie spese, pubblicherò in Svezia gli atti del processo istruttorie per la strage di Milano.
Tengo a dichiarare che un gruppo di persone si è messo a disposizione per tradurre in svedese tutti gli atti di tale processo.
Stoccolma 10 gennaio 1972
Persino l’intervista a Ciao 2001 era parte della trappola… secondo Cucchiarelli
10 marzo 2011Come abbiamo già visto in altre parti di questo blog, analizzando e smantellando le manipolazioni e falsità del giornalista e novello inquisitore Cucchiarelli, tutta la costruzione del suo libro revisionista è imperniata sui racconti fantasiosi di vari squallidi personaggi di estrema destra e dei servizi segreti. Cioè le stesse persone, gli stessi ambienti, che stanno dietro la strage o che l’hanno coperta.
Se Cucchiarelli avesse scritto questo libro in buona fede, magari manipolato nelle sue convinzioni ma senza rendersene conto, allora ci saremmo aspettati che – come anche i giornalisti principianti sanno – almeno il principio base, deontologico di ogni giornalista, e cioè che una fonte, per essere valida, deve essere controllata e verificata, venisse applicato. Ma questo nel libro di Cucchiarelli non avviene mai, neppure quando una verifica sarebbe molto semplice da fare.
Il tentativo di riscrittura della storia messa in atto dal Cucchiarelli si basa essenzialmente sulla quantità di “documentazione” che butta alla rinfusa nel libro, per creare confusione e allo stesso tempo per dare l’impressione di aver svolto un grande lavoro di ricerca. D’altronde – avrà pensato il nostro – chi si prenderà mai la briga di controllare la veridicità delle 700 pagine del libro? Purtroppo per lui, alcuni di noi sono ancora in vita e non disponibili a far passare le sue menzogne per verità storica.
Vediamo ad esempio il capitolo riguardante l’intervista che il circolo 22 marzo fece alla rivista Ciao 2001 e l’attendibilità dell’ “allora esponente dell’estrema destra” che viene da Cucchiarelli definito “fonte qualificata”.
Dal libro Il segreto di Piazza Fontana, pagg. 392-393 di Paolo Cucchiarelli:
“Durante i primi interrogatori dopo la strage, Merlino disse che il circolo era nato «quasi contestualmente» all’intervista.63 Ciao 2001 chiese al gruppo di stendere il suo programma, cosa che – dopo lunghe discussioni – avvenne. «La redazione pubblicò integralmente il testo, premise solo un’introduzione e una domanda, a scopo scandalistico: se avevamo dell`esplosivo».
Con i soldi ricevuti, si decise di prendere una cantina, in via del Governo Vecchio, che divenne la sede del circolo 22 marzo. La sede – come poteva essere diversamente! – era al numero 22. Ora tutto era pronto: il gruppo «anarchico» a cui sarebbe stata addossata la strage esisteva, aveva un suo programma nero su bianco, una sede, un nome, un’identità.
«Fino a quel momento non esisteva un nostro gruppo politico vero e proprio. Fu in questa occasione, visto che i pareri erano discordi sul nome con cui qualificarci nell’intervista, che decidemmo di chiamarci ‘22 marzo’: conoscevamo tutti il Maggio francese e l’antefatto di Nanterre del 22 marzo 1968» scrisse Valpreda, che anche dopo anni continuerà a sostenere che quella scelta fu del tutto libera, senza rotaie. Invece, persino l’intervista era parte della trappola.
L’articolo su Ciao 2001 – ricorda una nostra fonte qualificata, allora esponente dell’estrema destra – era stato scritto da Tonino Scaroni, caporedattore alla sezione Spettacolo del Tempo, il giornale dove lavorava il capo di ON, Pino Rauti. Non solo: Scaroni era anche il capo ufficio stampa di un cabaret di destra molto importante all’epoca, il Giardino dei supplizi. Al riguardo, la nostra fonte segnala: «Cera un triangolo ideativo della trappola, con tre punti di riferimento: la sede del settimanale Il Borghese in piazza Rondanini, il Giardino dei supplizi in via del Pozzo delle Cornacchie, e la sede del settimanale Lo Specchio, in via XX Settembre. Il giornale pubblicava i rapporti di Giannettini che questi girava al gruppo veneto per convincere la sinistra che si era prossimi al golpe. Tutto per spingere i gruppi ad agire».
«E chi era la mente?» oso chiedere.
«Molte, tutte molto fini» e qui cita un senatore, uno scrittore, una giornalista, un ex repubblichino «e probabilmente Umberto Federico D’Amato, grande archivista degli Affari riservati del Viminale, insieme a una parte rilevante dei carabinieri. Ma la guida di tutto, quella che lei chiama “la mente” era una semplice idea. Solo la Grande Provocazione avrebbe potuto far scattare la Grande Reazione».”
L’articolo-intervista a Ciao 2001 che abbiamo già pubblicato integralmente sul blog (Ciao 2001 n.43 del 19 novembre 1969 – Intervista/Documento collettivo prodotto dal circolo 22 marzo) in effetti non porta firma. Essendo un articolo non firmato la “fonte qualificata” dell’estrema destra usata da Cucchiarelli ha cercato di inserirsi nel gioco disinformativo. Infatti questo (ennesimo) misterioso e fantomatico personaggio ci rivela il nome del giornalista che avrebbe scritto il pezzo, cioè il giornalista del Tempo Tonino Scaroni. Grazie a questa “rivelazione”, attraverso Scaroni si può arrivare a Pino Rauti e così via “triangolando” e delirando.
Se credete che lo “studioso”, il “giornalista”, lo “storico” Cucchiarelli abbia fatto una sia pur minima ricerca per verificare le notizie che gli ha passato la sua “fonte” sbagliate di grosso. Come possiamo affermare questo? Possiamo farlo perché abbiamo eseguito noi la verifica sulla veridicità della fonte. Abbiamo consultato i verbali di interrogatorio eseguiti dalla Questura e dai magistrati inquirenti dell’epoca, Cudillo e Occorsio, e trovato il nome di chi realmente scrisse l’articolo su Ciao 2001, verbale che qui sotto pubblichiamo integralmente.
Noi, ora, qualcosa sappiamo con certezza,:
Primo che non è Scaroni l’autore del pezzo, e quindi le teorie malevole della “fonte informata” si rivelano per quel che sono: opera di provocazione e disinformazione.
Secondo, siamo in grado di fare anche noi uno “scoop”, seppur vecchio di 42 anni, Siamo infatti in grado di fare il nome del vero (stavolta!) autore dell’articolo: si tratta di Daniele DEL GIUDICE.
Terzo che il libro di Cucchiarelli è un’accozzaglia di teorie basate sul nulla.
Verbale direttore responsabile Ciao 2001
Verbale n.1
Questura di Roma
L’anno millenovecentosessantanove addì 29 del mese di dicembre alle ore 18.50, nei locali dell’Ufficio Politico della Questura, in Roma.
Innanzi a noi sottoscritti ufficiali di P.G. Commissario di P.S. dott. Umberto IMPROTA e Brigadiere di P.S. Tomaso PUDDU, è presente il dott. Sergio MARCHETTI [seguono generalità]…..il quale interrogato risponde:
Sono giornalista-pubblicista e dal 1962 sono iscritto nell’albo di Roma; dal gennaio del 1969 sono direttore responsabile della redazione romana del settimanale “Ciao 2001”.
Nella mia qualità di responsabile di detto settimanale, in merito al servizio giornalistico apparso nei numeri 39, 40 e 43 rispettivamente del 22 ottobre, 29 ottobre e 19 novembre del corrente anno,posso precisare quanto appresso:
“Nella inchiesta condotta dal nostro giornale sui gruppi del dissenso, è stato trattato anche il movimento politico “22 marzo”. Come può rilevarsi dal numero 39 del citato settimanale, il “22 marzo” venne inserito tra i movimenti politici su posizioni politiche di estrema destra. Il servizio giornalistico in proposito fu redatto dal collaboratore Daniele DEL GIUDICE, il quale si avvalse delle notizie pubblicate dal settimanale “L’Espresso” del 22/12/1968. Infatti, egli, secondo quanto mi risulta, non era in possesso di altro materiale e notizie, all’infuori di quelle pubblicate dall’Espresso, per espletare il servizio in argomento. Come detto quindi sulle indicazioni dell’Espresso il gruppo “22 marzo” venne inquadrato tra quelli appartenenti all’estrema destra; ciò, pertanto, suscitò il risentimento degli iscritti al gruppo i quali venuti in redazione, si definirono anarchici e pretesero che il nostro giornali smentisse, nel numero successivo quanto pubblicato. Alla richiesta noi aderimmo e nel numero 40 del settimanale “Ciao 2001” pubblicammo la smentita precisando che il gruppo “22 marzo” raccoglieva elementi anarchici. Successivamente alcuni appartenenti al ripetuto “gruppo”, presero contatti con la redazione del giornale che io rappresento per realizzare un servizio fotografico e giornalistico sul loro movimento. Alla proposta dei predetti noi aderimmo stabilendo che avremmo compensato il gruppo mediante la somma di lire quarantamila. Il 23 ottobre, infatti, una diecina di appartenenti al “22 marzo” vennero nella nostra sede redazionale ed ivi venne messo a punto il servizio giornalistico e fotografico già in precedenza concordato con alcuni di essi. Quanto detto e fotografato nella circostanza di cui sopra, è stato interamente pubblicato nel numero 43 del “Ciao 2001” del 19 novembre corrente anno.
A.D.R. Effettivamente l’articolo del numero 43 del nostro settimanale e riguardante il “22 marzo”, inizia con la domanda: “E’ vero che voi avete nei vostri magazzini armi ed esplosivo per portare a termine atti terroristici contro le istituzioni?”. La domanda fu posta in tali termini per una esigenza giornalistica e non perchè il nostro giornale aveva avuto notizie in merito all’attività terroristica del gruppo. Il tono della stessa lascia effettivamente supporre che il giornale fosse in possesso di notizie a riguardo, ma io posso assicurare che nulla sapevamo e sappiamo e che la domanda fu posta nei termini sopra detto esclusivamente per dare all’articolo pubblicato un maggiore rilievo ed una maggiore incisività. Tengo, inoltre, a precisare che alla nostra domanda i giovani risposero esattamente quanto abbiamo pubblicato nel surripetuto numero, ossia negativamente.
A.D.R. L’idea di fare una domanda così precisa in merito ad un eventuale detenzione di armi ed esplosivi, venne a me e fu da me personalmente posta ai giovani, in quanto sulla scorta di notizie giornalistiche pubblicate nel corrente anno su settimanali e quotidiani di ogni tipo di estrazione politica, si era pensato che i vari gruppi del dissenso potessero effettivamente essere detentori di materiale esplosivo e di armi e, pertanto, responsabili dei vari attentati consumati nelle numerose città italiane. Mi permetto, però, di far rilevare, a conferma del fatto che la prima domanda fu fatta esclusivamente per esigenze giornalistiche, che la stessa domanda è quanto mai ingenua, poiché anche se i giovani avessero avuto materiale del genere e programmi terroristici, essi non avrebbero mai pubblicamente confessato e fatto pubblicare notizie a riguardo.
A.D.R. Non ricordo se durante l’intervista fatta ai giovani del gruppo “22 marzo” da parte di alcuno di essi venne detto o fatto cenno a qualche punto programmatico del loro movimento che potesse far capire il modo in cui essi intendevano condurre la loro azione politica, specie per quanto riguarda eventuali azioni od atti di violenza. Ricordo, comunque, che furono fatti discorsi quanto mai teorici ed in sintesi essi sono stati integralmente riportati nel nostro articolo pubblicato sul numero 43 del settimanale in questione datato il 19.11.1969.
A.D.R. Confermo tutto quanto sopra dichiarato e ribadisco che nessuna altra notizia, all’infuori di quelle pubblicate e riguardante il gruppo “22 marzo”, è pervenuta al nostro giornale ed, in particolare, al collaboratore Daniele Del Giudice.
A.D.R. Non ho altro da aggiungere.
Letto, confermato e sottoscritto
Verbale n.2
2 maggio 1970
Avanti il dott. : Ernesto Cudillo -.G.I. – con l’intervento del P.M. Dr. Occorsio
E’ comparso Sergio Marchetti
Quindi, opportunamente interrogato, risponde: Sono direttore responsabile della rivista “Ciao 2001” confermo integralmente le dichiarazioni da me rese alla Questura di Roma ed il contenuto dell’intervista pubblicata sul n.43 del predetto settimanale.
Produco inoltre, a richiesta della S.V., n.25 fotografie scattate il 23 ottobre 1969 in occasione della venuta in redazione del gruppo “XXII marzo; preciso che le persone indicate con le lettere A, B e C nella fotografia n.7 sono appartenenti alla nostra redazione; ugualmente le persone raffigurate nella foto n.17 sotto le lettere A e B sono rispettivamente il sottoscritto ed il giornalista Daniele Del Giudice che ha partecipato all’intervista.
A.D.R.: Il testo, che figura come una intervista fu in realtà predisposto su un foglio dattiloscritto dagli aderenti al gruppo e dagli stessi a noi consegnato.
Esibisco in visione la quietanza datata 23 ottobre 1969 relativa alla consegna della somma di £. 40.000 “quale compenso e autorizzazione a pubblicare le relative foto” a firma di Mario Michele Merlino.
Preciso inoltre che, in un primo tempo, i partecipanti alla intervista ebbero a fornire i loro nominativi, ma subito dopo vollero strappare il relativo fog1io.
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